Storia della critica foscoliana (1982)

W. Binni, Storia della critica foscoliana, in Id., Ugo Foscolo. Storia e poesia cit., pp. 203-303. La prima redazione della Storia, corrispondente alla parte compresa tra «la valutazione dei contemporanei» e «gli studi del Fubini e lo stato attuale della critica foscoliana», è pubblicata in Id., Svolgimento della poesia foscoliana, vol. I cit., pp. 5-82 (ora alle pp. 17-64 del volume primo della presente edizione). Il testo delle dispense è parzialmente ristampato in Id., Linee di una storia della critica foscoliana sino al De Sanctis, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», sezione II, Lettere, storia e filosofia, vol. XX, Pisa, 1951, pp. 169-205; in versione aggiornata e incrementata in Ugo Foscolo, I classici italiani nella storia della critica, vol. II, Da Galileo a D’Annunzio, Firenze, La Nuova Italia, 1955, pp. 327-392 (edizioni ampliate e aggiornate: 1961, 1970), e in Id., Foscolo e la critica. Storia e antologia della critica, Firenze, La Nuova Italia, 1957 (edizioni ampliate e aggiornate: 1962, 1966, 1971).

Storia della critica foscoliana

1. Giudizi e reazioni dei contemporanei.

All’opera foscoliana non mancarono giudizi e reazioni dei contemporanei, come sin dalla prima apparizione del Foscolo a Venezia non mancarono neppure entusiastici elogi poetici che confermano la forte impressione suscitata da quella originalissima e vistosa personalità[1], espressioni di ardente simpatia e ammirazione per un animo eccezionale oltre che per un grande poeta, che, fuori del periodo giovanile, culminano nel ritratto squisito ed illuminante della Teotochi Albrizzi con i suoi rilievi appassionati entro il nitido disegno neoclassico: «L’animo è caldo, forte, disprezzatore della fortuna e della morte. L’ingegno è fervido, rapido, nutrito di sublimi e forti idee... Pietoso, generoso, riconoscente, pare un rozzo selvaggio a’ filosofi de’ nostri dí. Libertà, indipendenza sono gli ideali dell’anima sua. Si strapperebbe il cuore dal petto, se liberissimi non gli paressero i moti tutti del suo cuore... Animo fervido, ma sincero, come lo specchio, che non illude né inganna...»[2]. Simpatia e ammirazione (coerente spesso – anche nell’accertamento delle passioni impetuose, se non dei «vizi» accanto alle «virtú» – allo stesso autoritratto, al mito autobiografico creato dal poeta fra Ortis e sonetti; ché il ritratto didimeo rimase poi piú segreto ed inefficace sulla fantasia dei contemporanei) cui corrisposero un odio e un livore che non conobbero altri grandi poeti, meno ricchi di umori e di impegni nella vita contemporanea: dagli attacchi del Lattanzi, del Guillon a quelli del Lampredi, del Monti, anch’essi, a lor modo, necessari al tormentato ritratto dell’uomo e del letterato «nuovo», e premessa piú pettegola alla lunga polemica che agitò la fortuna del Foscolo nella prima metà dell’Ottocento e convalidò lo straordinario spicco di un animo e di una poesia cosí impegnativi e rivoluzionari in profondo[3].

Gli stessi giudizi piú sereni che dell’Ortis e dei Sepolcri (le due opere che piú attrassero l’attenzione dei contemporanei insieme al Commento alla Chioma di Berenice, all’Aiace, e all’Orazione inaugurale) dettero uomini come Cesarotti e Bettinelli riflettono sempre uno stato di incertezza turbata, diviso fra ammirazione e incomprensione, che è tipico dei letterati del tempo di fronte ad un’arte troppo romantica[4] in una certa direzione, troppo «greca» in un’altra, oltreché troppo decisa ed aspra nei confronti del comodo tradizionalismo ideologico o di quei compromessi cosí comuni allora fra credenze tradizionali, razionalismo illuministico, impoverito dei suoi succhi piú intensi, e vago spiritualismo preromantico. Cosí il Cesarotti, consigliere e «padre» del Foscolo preortisiano, reagiva, fra dolente, stupito e ammirato, alla novità estrema dell’Ortis, l’opera in cui il suo preromanticismo moderato veniva superato di colpo da una posizione cosí violentemente passionale e strenuamente impegnativa: «Del tuo Ortis non ho voglia di parlarne. Esso mi desta compassione, ammirazione e ribrezzo. Non dirò che due parole. Questa è un’opera scritta da un Genio in un accesso di febbre maligna, d’una sublimità micidiale e d’una eccellenza venefica. Veggo pur troppo che è l’opera del tuo cuore... Nella lettura dell’Ortis ho bisogno di respirar tratto tratto per non restare oppresso dal cumulo d’idee, di fantasmi e d’affetti coi quali mi hai posto assedio al cuore e allo spirito»[5]. E l’atteggiamento del Bettinelli, il «Nestore» della letteratura italiana, ben indica gli sforzi dell’epoca di ridurre la novità dell’Ortis in maniera piú accettabile al proprio gusto moderato, attraverso l’elogio del «bello stile», della «forte immaginazione ne’ quadri», quasi separandoli dal fondo e dallo stesso svolgimento del romanzo, a cui però egli muoveva per il primo un’accusa, tante volte ripresa nell’Ottocento, circa l’eccessiva tensione iniziale e la mancanza di catastrofe veramente interessante: sí che il lettore si stanca e «diviene critico e talor nemico del libro»[6]. Né meno disorientato e perplesso si trovò il Bettinelli di fronte ai Sepolcri, che egli invano si provò a misurare con i criteri adattabili ai sermoni o alle epistole pindemontiane, e che finí per dichiarare «oscuri», pur protestando, con dubbia enfasi, la sua ammirazione di autore dell’Entusiasmo per «tanto spirito e furor poetico»: «Avete troppo ingegno per me, onde mi riesce oscuro lo stile di questo Carme benché da me letto e riletto con applicazione. Altri piú acuti l’intenderanno, ma niuno quanto voi levato a sí alta sfera di gran pensieri e frasi tutte vostre, e poco, credetemi, chiare per noi mediocri. Tal mi reputo in buona coscienza. Ma v’ammiro in tutto gran poeta»[7]. Accusa di oscurità (legata alla presunta mancanza di logica nei passaggi del carme) che soprattutto gravò sui Sepolcri negli anni neoclassici e che, culminando nell’irosa definizione del Giordani («fumoso enigma»[8]), costituisce il limite piú forte degli stessi elogi del pindarico «sublime» foscoliano e si convalida nel paragone di prammatica con i Sepolcri del Pindemonte. I quali, dal 1808 in poi, vengono pubblicati insieme al carme foscoliano e all’epistola del Torti, che appunto sottolineava nel Foscolo oscurità, incomunicabilità («sol ti ricordi / ch’uomo ad uomini parli») e la mancanza di quella fede a cui invece il Pindemonte aveva affidato – non senza polemica con il vicino grande – la commossa risoluzione del suo componimento. E proprio quest’ultimo saldava le richieste di una diversa soluzione religiosa[9], di una maggiore chiarezza discorsiva e di un piú cauto volo fantastico con quella di un classicismo meno integrale[10].

Questo paragone dei Sepolcri con l’epistola del Pindemonte, e magari con quella del Torti, occupò prevalentemente, come dicevo, l’attenzione dei contemporanei e se in qualche caso quel confronto poté far risaltare, agli occhi di qualche lettore piú acuto, le qualità tanto piú originali del Foscolo, la sua ricchezza e profondità di idee e sentimenti, la forza del suo intento civile, il valore della sua stessa «sublime oscurità» (come avviene in qualche punto del notevole articolo di Luigi Pellico: «Quelle ardite transazioni e quella religiosa oscurità, stimolo all’attenzione e carattere del sublime, contraendo il pensiero e agitando l’immaginazione del lettore, gli offriranno idee alte e vivaci, perché mosse da un alto argomento, ma idee sue proprie»[11]), esso per lo piú finiva per sviare il giudizio in inutili riferimenti a diversi modelli classici (Tibullo per Pindemonte, Orazio per Torti, Pindaro per Foscolo), in mediocri e sterili divisioni di lodi e biasimi entro una prospettiva di formalistico eclettismo neoclassico. E ribadiva, in contrasto con la chiarezza e fluidità del Pindemonte, magari accusato di pericolo prosaico, l’accusa all’oscurità della poesia foscoliana. Come si può vedere, ad esempio, in un articolo del Buccelleni: «Pindemonte per amore di spontaneità e chiarezza cade talvolta nel prosaico, ed il signor Foscolo per amore di altezza e di brevità urta talora nell’oscuro e nello strano. Nel primo trovasi alcuna negligenza e, benché di rado assai, qualche languore: nell’altro l’olio di lucerna e soverchia tensione. Il Pindemonte è nella sua verseggiatura fluido e delicato e di tratto in tratto uniforme; Ugo Foscolo è rapido, sonante, e mirabilmente variato nei toni e spesso di una varietà che scuote e non diletta»[12].

Mentre cosí il paragone con il Pindemonte e la discussione sulla oscurità esaurirono per molto tempo l’impegno dei lettori dei Sepolcri, facendo perder di vista i problemi centrali della poesia foscoliana[13] e lasciando persino indeciso l’uso esemplare o polemico che classicisti e romantici avrebbero potuto trarre dal Foscolo nella «romanticomachia»[14], incise fortemente sul primo sviluppo della valutazione del Foscolo il dissenso ideale e politico del primo romanticismo risorgimentale, incerto fra l’ammirazione per l’esule e la delusione per il suo necessario atteggiamento di distacco dall’attività dei patrioti, fra il fascino del suo culto della libertà e il pessimismo realistico di origine materialistica. E molto contribuirono negativamente, in campo romantico, oltre alle ragioni di gusto (la difesa del Foscolo della mitologia e i suoi attacchi al sistema romantico), quelle politiche e spirituali e il conseguente distacco dal Foscolo di giovani come lo Scalvini, Silvio Pellico e il Capponi che, proprio nel periodo in cui doveva formarsi un primo giudizio critico sulla sua opera, riconoscevano in lui un maestro da non piú seguire, una giovanile seduzione da rigettare, spesso violentemente[15]. E si pensi a quanto influí, almeno sul silenzio di molti dei suoi vecchi amici, il dubbio sulle ragioni vere del suo esilio: donde poi, in alcuni, l’appassionato ritorno all’ammirazione, ed al culto, del Foscolo quando apparve, negli Scritti politici pubblicati nel ’44 dal Mazzini, la Lettera apologetica che quel dubbio chiariva[16].

Solo piú tardi appaiono degne di maggiore attenzione le pagine sensibili che al Foscolo dedicò Giuseppe Montani, il noto collaboratore della «Antologia». Mosso da un forte affetto per il Foscolo e da un gusto dichiarato per le «citazioni», e cioè da una volontà di lettura e di comprensione esercitata sui testi, il Montani poté per primo valutare positivamente la Notizia intorno a Didimo Chierico («La bellissima prosa in ogni riguardo a me pare nella notizia di Didimo Chierico, specchio d’una seconda epoca nella vita del Foscolo»), e accennare allo sviluppo della prosa foscoliana dopo l’Ortis, nel quale sapeva anche rilevare una esigenza stilistica tutt’altro che in contrasto con la sua natura di romanzo dell’epoca prerisorgimentale: «Ma dell’Ortis in particolare, non dubiterei d’asserire, che anch’esso... è l’espressione vera d’un’epoca singolarissima, né lo è solo per le idee e per gli affetti, ma anche per lo stile. Ché saria ben poco avveduto chi non scorgesse in questo uno sforzo, forse malsicuro, ma originale di nuova nazionalità». Mentre decisamente concludeva per il primato dell’ispirazione lirica in tutta l’opera foscoliana («tutto naturalmente sotto la sua penna si volgeva alla lirica») e, nel giusto apprezzamento dello stilista e del letterato, affermava l’originalità e il significato storico dell’uomo, di fronte al quale inutili e meschini gli apparivano l’atteggiamento moralistico e l’eccezionale severità della maggior parte dei critici contemporanei[17].

Posizione che poteva costituire una base efficace di avvicinamento all’opera e alla personalità foscoliana, specie se si fosse tenuto conto anche delle intuizioni autocritiche dello stesso Foscolo, delle sue spiegazioni, spesso cosí profonde, dei propri intenti, della propria poetica, delle proprie singole opere. E basti pensare in proposito all’analisi dell’Ortis nella Notizia bibliografica, con l’acuta giustificazione della organica coesistenza e della funzione dei due motivi amoroso e patriottico e con la ricca caratterizzazione del valore stilistico e linguistico di quell’opera, o alle precise indicazioni sulla sua poetica e sul suo metodo lirico nel Commento alla Chioma di Berenice, nel Discorso sopra la poesia lirica, nel discorso, di ispirazione foscoliana, del Borgno sui Sepolcri[18], o alla valutazione, cosí essenziale per i Sepolcri, della sublimità dell’episodio finale[19] e al rilievo del chiaroscuro poetico e dell’arduo calcolo musicale del suo verso nel carme, in quelle pagine del saggio Sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del secolo XIX[20] che presentavano tutta una interessante, anche se parziale, interpretazione politica dell’opera foscoliana nell’epoca napoleonica: motivi tutti cosí adatti a favorire una complessa valutazione e spiegazione della posizione storica e letteraria della poesia e della personalità foscoliana e che invece vennero in parte utilizzati criticamente solo piú tardi, dal De Sanctis, mentre l’interpretazione politica foscoliana venne accolta in direzione troppo pragmatica ed agiografica dagli interpreti e apologeti risorgimentali.

2. La polemica risorgimentale e le interpretazioni dell’epoca romantica.

La posizione equilibrata e comprensiva del Montani non trovò immediato sviluppo fra gli scrittori del suo tempo e, mentre in alcuni l’accertamento delle «virtú» del Foscolo e del valore risorgimentale del suo esempio si cambiò in una esaltazione, spesso indiscriminata e passionale, le reazioni negative dei contemporanei si ampliarono in un duro attacco alla sua personalità, intorno alla quale (e piú intorno alla sua coerenza e validità ideale, morale, politica che non alla sua espressione poetica) si sviluppò cosí una lunga polemica. Polemica molto significativa per la storia delle correnti contrastanti del nostro Risorgimento, e pure piena per noi di interesse, perché – malgrado la scarsità di piú diretti giudizi estetici – essa rappresenta un primo intenso contatto con la personalità foscoliana che, in mezzo a forzature ed equivoci, vien distaccata dal limbo letterario classicistico in cui per lo piú l’avevano mantenuta il paragone con il Pindemonte o la netta subordinazione al Monti, la cui figura apollinea, cosí esageratamente suggestiva nel primo Ottocento, contribuí ad offuscare a lungo quella del Foscolo e a far risaltare la presunta oscurità e scarsità di vena del poeta dei Sepolcri, in contrasto con l’onda piena, sontuosa e sonora del verso montiano.

L’avvio alla polemica sul Foscolo «uomo e cittadino», cioè sulla validità della sua figura in senso risorgimentale, sulla coerenza e sincerità della sua personalità come fonte della sua poesia, è dato dal libro di Giuseppe Pecchio, Vita di U. Foscolo, uscito a Lugano nel 1830[21]. Libro scritto con un gusto compromesso fra agio saggistico all’inglese, impegno critico e una duplice attenzione di ammirazione e di satira alla vita del grand’uomo nella sua energia vitale e nelle sue pose retoriche, e destinato perciò a suscitare le ire dei romantici mazziniani e dei fedeli all’amicizia e all’affetto per l’esule da poco scomparso in un alone di sventura e di martirio politico. In realtà quelle ire furono esagerate e spiegabili soprattutto nel fervore della formazione del mito foscoliano risorgimentale, che nel libro del Pecchio certa angustia e ingenerosità, specie nei particolari e negli aneddoti pettegoli (derivati piú dal gusto dello humour, della bella pagina caricaturale – e sollecitati anche dalle reazioni dell’ambiente inglese alla personalità del Foscolo[22] – che non da una precisa volontà di demolizione), è poi compensata dalla vivacità efficace e dalla schietta simpatia di tante altre pagine in cui la figura dell’«appassionato» Foscolo, impetuoso, generoso, originalissimo anche nelle pose e negli umori piú estrosi, sventurato e instancabile nella sua lotta con il «reo tempo», si staglia potentemente nella sua inquieta, intensa vitalità, nella sua tensione persino eccessiva, ma necessaria alla sua poesia.

Naturalmente i chiari spunti di glorificazione[23], che dànno al libro del Pecchio un posto non trascurabile anche in quella formazione della «statua» risorgimentale che trovò base essenziale negli scritti del Mazzini, vennero accolti come avvii da quegli ammiratori del Foscolo che rimanevano invece offesi dal tono spesso ironico e da certe limitazioni pettegole, tanto piú insopportabili nel nuovo clima di entusiasmo che si veniva creando nell’ambiente degli esuli e dei patrioti. Il libro del Pecchio divenne cosí di fatto soprattutto lo stimolo polemico ad una tendenza agiografica (già manifestatasi in parte per il Parini e l’Alfieri, sull’avvio dello stesso Foscolo), che, partendo dalla lettera del fratello Giulio alla «Biblioteca Italiana» (aprile 1835), trova un primo documento notevole nell’opera di Carlo Gemelli[24]. Opera aperta proprio da una precisa dichiarazione antipecchiana e chiusa da una perorazione («Italiani! Ugo Foscolo merita una pietra, una parola, merita che l’Italia onori finalmente il nome e le ceneri di codesto suo figliolo») che segna bene, come tutto il libro (che, indicativo per l’ortisianismo, se pur goffo, del suo stile, e per l’esaltato tono agiografico che inventa e trasfigura inverosimili episodi della vita foscoliana, interessa anche per il chiaro avviamento alla preminenza concessa all’Ortis e ai Sepolcri per il loro valore civile-patriottico[25]), il rapporto di questa interpretazione apologetica con l’essenziale opera compiuta dal Mazzini per indirizzare coscientemente la critica verso una precisa glorificazione risorgimentale del Foscolo in funzione di un mito da offrire alla gioventú italiana nella sua lotta e nella sua rigenerazione.

Il Mazzini puntava infatti su di una «vita esemplare» che per tanti anni vagheggiò di scrivere raccogliendo materiale, corrispondendo con la «Donna gentile»[26], e in cui avrebbe voluto dare un esempio concreto della sua teoria romantica del «Genio» tracciando insieme un quadro della storia italiana nel suo momento prerisorgimentale[27] e proponendo ai giovani italiani la figura del Foscolo come incoraggiante prova dell’«idea» incarnata: fine altamente pedagogico che nel saggio mazziniano[28] si diversificava però dagli intenti piú generici del Gemelli in quanto la pragmatica interpretazione foscoliana del Mazzini si articolava in una netta separazione fra il pensiero foscoliano di origine settecentesca e materialistica, caduco e inaccettabile per gli idealisti romantici (malgrado la sua componente vichiana solo da altri direttamente rilevata), e l’anima del Foscolo, la sua intima vita, la sua pratica morale e politica, il lampeggiamento geniale in lui della necessità di «una direttrice fondamentale» etico-politica nella letteratura, della immedesimazione fra «idea» e «vita» nella assoluta «indipendenza da ogni autorità usurpata». Il pensiero veniva ridotto a «passione»[29] per salvarne la radice accettabile da parte dello spiritualismo mazziniano, il Foscolo veniva sentito come annunciatore di una nuova letteratura («piú ch’emancipato, emancipatore») solo intuitivamente attuata nella sua poesia, gli elementi illuministici e classicistici della sua opera venivano considerati come residui culturali, inessenziali al nucleo piú intimo, all’animo del Foscolo, che cosí il Mazzini poteva esaltare nell’incontro della sua nuova idea della letteratura e della sua tragica testimonianza morale e patriottica illuminata dalla luce dell’esilio volontario.

Se le pagine del Mazzini non portavano cosí contributi diretti allo studio della poesia foscoliana nella sua realtà estetica, esse però rinsaldavano l’impressione piú generale della genialità, grandezza, vitalità della personalità del Foscolo, ne proponevano, sia pure in funzione pragmatica, il significato storico; e se contribuivano ad accentuarne anche rischiosamente il carattere di vate civile e patriottico che spesso oscurò la comprensione del fondo lirico piú intenso e universale della sua grande poesia, tuttavia utilmente assicuravano, pur nella esagerazione ed eccitazione apologetica risorgimentale, la potente radice personale, la salda base umana e morale di quella poesia. Posizione essenziale sia nei confronti delle vecchie incomprensioni dei contemporanei del Foscolo, sia di quelle stroncature dei critici moralisti e cattolici che finivano per coinvolgere lo stesso animo e la stessa poesia del Foscolo nella loro svalutazione del suo «paganesimo» classicista: anche se nel loro atteggiamento polemico quei critici ebbero spesso intuizioni stimolanti, scandagliando assai meglio del Mazzini nella complessità dell’animo e dell’arte del Foscolo, rilevando possibili limiti di opere e di momenti della sua attività, e tuttavia sempre restando, come lo stesso Mazzini e i mazziniani, troppo attenti all’uomo piú che al poeta, alla coerenza della vita piú che a quella della poesia.

Già negli scritti di Giovita Scalvini il preciso ricorso ad un criterio di giudizio moralistico e religioso (anche se non confessionale) vizia e deforma giudizi inizialmente accettabili e spesso ricchi di spunti acuti, originali. Cosí l’osservazione della complessità e della lotta interna dell’animo foscoliano («Ugo Foscolo era dotato di vigorose facoltà, ma discordi...») implicava una giusta correzione all’eccessiva unificazione e giustificazione addotta poi dal Mazzini, ma inaccettabile era la risoluzione di quella complessità e drammaticità in frivolezza di letterato: «Egli le abbandonò alla loro lotta, spensierato di che ne sarebbe riuscito... Parve contentarsi d’essere uomo di lettere; ma non pensò che prima era uomo, che l’uomo deve primamente aver cura di sé e della sua natura, che egli non è nato per passare sopra la terra col pensiero fuori di sé, intento a gareggiare di meriti letterari coi suoi contemporanei e intento a cogliere solo lode dai suoi scritti»[30]. Cosí come, nell’esame dell’Ortis, il giudizio essenziale sulla natura di quel libro (che era poi in qualche modo una ripresa dei primi giudizi dei contemporanei: «Non vuolsi dire una storia al lettore, vuolsi scuoterlo, aggirarlo, menarlo a farneticare»[31]),può avviare un discorso critico su eloquenza e poesia, su elementi pratici e poetici commisti in quella singolare opera della formazione foscoliana; ma poi la posizione moralistica porta ad una condanna e ad una indicazione della perniciosità di quella lettura che ci allontana da un vero esame estetico e storico[32]. Posizione moralistica che ritroviamo, in una precisa giustificazione religiosa e filosofica, nelle pagine dedicate al Foscolo da Antonio Rosmini nei suoi Opuscoli filosofici.

Già nel Saggio sull’idillio e sulla nuova letteratura italiana un significativo confronto tra Foscolo e Manzoni chiariva l’impostazione polemica rosminiana che valutava la poesia foscoliana in relazione ad un progresso romantico-cristiano rappresentato dal Manzoni e contraddetto dal Foscolo «del quale una religione turpe governa il carme, una religione di società oscura, crudele, brutale, infelice, sotto il peso delle migliaia d’anni sepolta», il cui canto pagano non potrà lasciare che un «suono lusinghiero di breve dolcezza» destinato a disperdersi mentre la nuova poesia cristiana accompagnerà l’umanità «che irreparabilmente s’avanza»[33]. Mentre nel saggio Della speranza: saggio contro alcuni errori di U. Foscolo il Rosmini attacca decisamente il Foscolo come contrario al «secolo» e al suo spiritualismo: e, confondendo il dramma e il potente sogno romantico-neoclassico del poeta con un vuoto classicismo paganeggiante, mira ad escluderlo dalla viva storia dell’Ottocento («Dico che questa non è voce della presente società, ma solo quella di un individuo che abbandona i suoi contemporanei per retrogredire fino agli adoratori degli idoli»[34]) come invincibilmente chiuso nel «senso», banditore nei Sepolcri di una «speranza ingannevole», a cui il filosofo oppone la salvezza della verità cristiana, senza preoccuparsi di comprendere le ragioni profonde di quell’ingorgo di pessimismo e di aspirazione a nuovi valori vitali nella precisa situazione foscoliana e nelle condizioni storiche della crisi fra illuminismo e romanticismo[35].

Riprese le posizioni del filosofo roveretano e dello Scalvini (che era giunto alla dichiarazione: «Foscolo aveva sortito un ingegno piuttosto critico che creatore»[36]) il Tommaseo, che le sviluppò in un attacco generale e violento senza ricusare neppure l’uso della peggiore aneddotica antifoscoliana. Come si può vedere già in una lettera del ’34, al De Tipaldo, che traccia con penna abilmente maligna – malgrado le dichiarazioni di simpatia – un ritratto polemico del Foscolo nella sua incoerenza morale e ideale, nella frivolezza del suo pensiero «viziato dai pregiudizi del secolo decimottavo e dalla mancanza di idee» («perché Foscolo non aveva idee; aveva affetti, citazioni, memorie, immagini, frasi; idee, voglio dire principi non aveva. La sua teoria della disperazione è un urlo piú che un sistema»[37]), nel predominio assoluto di sentimento e di lirico entusiasmo, che veniva però subito limitato accertando nella stessa ispirazione lirica l’ibrida presenza della erudizione e della imitazione letteraria. E piú tardi replicando al Mazzini[38], di cui metteva in ridicolo certe espressioni enfatiche («angelo della disperazione», «sacerdote di idee»), riduceva la stessa concessione della lettera al De Tipaldo circa la validità del solo sentimento «retto» nel Foscolo, l’amore di patria, manovrando gli aneddoti e le testimonianze piú avverse sul periodo precedente l’abbandono di Milano per l’esilio, in modo da dimostrare la dubbia coerenza del patriottismo e della coscienza del Foscolo, la debolezza fondamentale della sua personalità incostante, pur nella presenza riconosciuta di impeti alti, di forti lampi di ingegno. Come piú sinteticamente il Tommaseo dimostra nelle due voci dedicate al Foscolo nel Dizionario d’estetica (Foscolo, Il Foscolo e il Vico) che meglio precisano il suo giudizio e la sua sostanziale stroncatura dell’uomo e del poeta, del loro valore storico, della loro validità ideale. Dell’uomo si costatava ancora la volubilità, l’insensibilità morale, l’incuranza dei valori supremi, la irrequietezza («ira piú che sdegno, piú passione che affetto»), la vita sregolata e megalomane[39]; dello scrittore si annullava la sostanza ideale e il nutrimento di pensiero recidendone, con tendenziosa acutezza, ogni possibile legame con una feconda tradizione vichiana[40] e isolandolo completamente in una cultura sorpassata, in una angusta posizione «impopolare» («visse e scrisse e pensò impopolare»), antiprogressiva, di sterile classicismo e di letteraria imitazione, sicché la sua opera lirica diventava soprattutto «traduzione» e la sua critica «citazione». Stroncato al centro l’animo del Foscolo, dimostrati empi arretrati ed incoerenti il suo classicismo, la sua dottrina, il suo pensiero, ambigua riesce la stessa lode allo stilista, al suo «culto amoroso della parola» (che è pure motivo importante e positivo il cui riconoscimento era particolarmente facile allo stilista Tommaseo), come nello stesso elogio, improvvisamente altissimo, della potenziale grandezza del poeta («E perché il Foscolo pare a me che dalla natura fosse destinato a sorgere di tutti gli scrittori dell’età nostra e della passata sommo, però mi duole che le false dottrine, e piú che le passioni ardenti, la vanità della vita l’abbiano fatto agli altri pericoloso e minore di se stesso») era implicita una effettiva svalutazione dell’opera realizzata, alla quale assurdamente il Tommaseo rimproverava l’assenza di un «concetto animatore»[41]. E cosí la stessa attenzione tanto interessante al foscoliano «culto amoroso della parola» (su cui solo il Carrer nell’Ottocento romantico a suo modo insisté) avrebbe richiesto – per essere vera apertura ad una nuova comprensione del poeta al di là della polemica risorgimentale – un critico ben diversamente disposto a sentire storicamente le autentiche passioni e l’ispirazione che in quella «parola» vibravano e per cui quel «culto amoroso» fu non inutilmente esercitato, e una valutazione positiva ed intera di quella forza stilistica presupponeva il riconoscimento non di un’astratta disponibilità poetica, ma di un nucleo originale anche se sviluppato in condizioni di cultura e in atteggiamenti ideologici non condivisi dal critico. Mentre nel Tommaseo al pregiudizio romantico, in lui cosí forte, del «popolare» che tanto osteggiò nell’Ottocento, insieme all’avversione per la mitologia, la comprensione dello speciale classicismo foscoliano, si aggiungevano soprattutto un animus polemico violentissimo contro la posizione foscoliana cosí diversa dalla sua cattolico-romantica, e un acre moralismo confessionale, che acuirono la sottigliezza del suo esame negativo e bloccarono gli spunti di un giudizio piú equanime o svolsero in una negazione totale ed assurda quelle limitazioni del vichianesimo foscoliano che avevano pure un certo nucleo di verità.

In una posizione piú equilibrata ed attenta, anche se meno ricca di impulsi ideologici e storici, fuori della polemica che pur mostrava, se non altro, la singolare vitalità della personalità foscoliana cosí presente ai critici risorgimentali, si colloca l’introduzione premessa da Luigi Carrer alla sua edizione delle opere foscoliane[42]. Vero e proprio saggio di ricostruzione critica e non solo biografica, ché la stessa biografia (e piú storia intima che cronaca di vicende) avviava sempre ad un esame misurato e fine della poesia foscoliana, con interessanti indagini su passaggi e momenti del suo sviluppo, da cui l’interesse polemico e la disposizione meno analitica della critica romantica tenevan lontani altri interpreti foscoliani dello stesso periodo. Cosí il Carrer è il primo che si occupi del Piano di studi del ’96 per illuminare la iniziale formazione letteraria e i primi segni del gusto e della poetica foscoliana, mentre rileva già nella produzione del Foscolo adolescente la premessa e la «materia» delle opere mature. E la lettura del Tieste, ben sentito nella sua atmosfera di incubo piú che come azione organicamente drammatica, gli suggeriva l’intuizione centrale del lirismo foscoliano, del primato della ispirazione lirica, che, apparsa già nel Montani, assume però in lui una accezione piú chiara e sicura, per divenire da allora in poi punto fermo e persino luogo comune della critica foscoliana: «L’anima del Foscolo o la sua inspirazione che dir si voglia, era lirica; lirica in ogni cosa; nelle lettere familiari, negli articoli di giornale, nelle prefazioni de’ libri, e financo nelle postille da commentatore, la cosa men lirica di questo mondo»[43]. Affermazione tanto piú notevole perché appoggiata non ad un generico riconoscimento di grandezza, ma ad una attenta auscultazione del formarsi e dell’esistere della poesia foscoliana (né importa qui notare come nella nozione di lirica fosse compresa equivocamente, né solo nel Carrer, l’eloquenza) seguita dalle prime opere ai Sepolcri, che egli considera il culmine indiscutibile della linea di quella poesia e a proposito dei quali fa risolutamente cadere la vecchia accusa di oscurità «piú immaginata che reale» ricollegando del resto il carme a tutta l’esperienza «difficile» del lirico delle odi e dei sonetti. E, mentre svolge osservazioni sempre stimolanti sulle particolari qualità dello stile foscoliano (come quelle sulle «allusioni storiche» messe al posto delle vecchie similitudini di tipo omerico-montiano o sulla «rapidità» che brucia liricamente il pericolo «dissertatorio»), egli le ricollega centralmente a quella coesistenza di originalità e di letterarietà che egli sente quasi miracolosa, romanticamente inspiegabile, ma singolarmente affascinante per lui, che, attraverso l’eco della tradizione, avverte tanto piú forte e originale il timbro inconfondibile della voce lirica foscoliana[44].

Storia, calore di passione, vita istintiva del mondo classico (l’uomo antico di Byron[45]) sono motivi su cui egli sottilmente meditava per spiegarsi questa poesia cosí letteraria e cosí moderna, cosí neoclassica e cosí romantica: soprattutto ricca di «calore di passione, primo elemento ed irresistibile di ogni eletta poesia», sicché quando dai Sepolcri passa alle Grazie, malgrado la sua capacità di aderenza di lettore finissimo e di squisita educazione settecentesca (lo scolaro del gozziano Dalmistro), il Carrer, che pur vide il legame tra Foscolo sterniano e Grazie, si mostra anche lui disorientato e non riesce a realizzare positivamente i suoi tentativi di lettura spregiudicata. Aveva cercato di animare la «soavità» delle Grazie con il calore di un amore soave (quello per la Giovio, a cui riferí i celebri passi della «vergine romita» e dell’«alba sul Lario»), aveva sentito la squisita natura di quegli episodi, ma l’impressione della mancanza di un evidente nucleo centrale poetico-sentimentale e di una storicità esplicita come nei Sepolcri gli impediva di andare oltre il riconoscimento di ricchezza formale, di estrema abilità tecnica: «Vediamo che l’arte dello scrittore era fatta piú adulta, piú fini e copiosi gli accorgimenti, ma siccome impiegavansi sopra materia meno arrendevole, l’effetto non veniva uguale alla fatica»[46].

Malgrado questa incomprensione delle Grazie, comune del resto a tutta l’epoca romantica, e malgrado i limiti di approfondimento della personalità foscoliana relativi alla propria natura di «lettore» e di formalista piú che di critico integrale[47], il deciso e motivato riconoscimento della natura lirica del Foscolo, l’attenzione fruttuosa alla sua poetica e alla sua formazione letteraria, alla nascita e all’affermazione del suo verso e del suo stile, la minuta descrizione di opere fino allora trascurate, i delicati anche se tenui raccordi fra vita e poesia, mostrano bene quale posto meriti nella storia della critica foscoliana ottocentesca il Carrer: e la stessa limitazione del tema «civile» (in parte dovuta anche a ragioni prudenziali: l’opera usciva nella Venezia austriaca), se poteva significare un pericoloso rifiuto a considerare il vivo impegno storico del Foscolo e le ragioni concrete della sua attività di innografo del «mirabile» sí, ma anche del «passionato» contemporaneo, implicava pure una notevole, anche se poco consapevole, reazione al mito risorgimentale del poeta patriottico, alla sua valutazione prevalentemente pragmatica e polemica e permetteva un sottile arricchimento del ritratto foscoliano nelle pieghe piú intime dell’animo e nel lavoro dell’artista profondamente consapevole dei propri mezzi e dei propri fini espressivi.

Tuttavia la interpretazione del Carrer, proprio per quel tanto di diverso che in bene e in male rappresentava rispetto agli interessi piú vivi della critica romantica, rimase piuttosto isolata e in certo modo sommersa nel prevalere sempre piú deciso della interpretazione di origine mazziniana, collaborando semmai piú direttamente alla caduta delle vecchie accuse all’oscurità e illogicità dei Sepolcri, e alla perniciosità morale dell’Ortis. I Sepolcri sono ormai diventati il capolavoro indiscusso del Risorgimento, l’Ortis una lettura essenziale per i giovani patrioti e un efficace modello per la prosa dei mazziniani, mentre la versione sterniana agisce piú segretamente nella prosa di humour e di memoria[48]. E se il Cantú manteneva ancora la subordinazione del Foscolo alla scuola del Monti (nella sua Storia della letteratura italiana dava trenta pagine al Monti e cinque sole al Foscolo!) e, per i suoi pregiudizi moralistico-confessionali, riprendeva astiosamente le condanne del Tommaseo o del Rosmini, anche lui, pur nel suo gretto giudizio del «pagano» e dell’uomo la cui incoerenza lascerebbe «la posterità incerta se fosse un angelo o un demonio», finiva per cedere all’ammirazione per il poeta della patria, per il verso magnanimo e vaticinante dei Sepolcri, «grandeggiante di cose» e di immagini, pieno di «una selvaggia grandezza»[49]. Gli stessi avversari cattolici del Foscolo accettavano cosí almeno l’intera grandezza dei Sepolcri (mentre prima Scalvini, Rosmini e Tommaseo ne avevano ambiguamente ammirato la forma bella, ma esangue e senza sostanza), anche se precisavano ancora il loro dissenso circa la prosa, da quella ortisiana a quella del politico e del critico, come piú legata della poesia al pensiero e ai «principî» dell’uomo, sollecitati anche da nuove ragioni linguistiche e dal prevalente manzonismo. Come si può utilmente vedere, prima ancora che nella Storia del Cantú, nelle Lettere critiche di Ruggero Bonghi, che qualificano il Foscolo «prosatore mediocre, gonfio o forzato nelle frasi, ambiguo e incerto nelle parole», e distinguono una sincera «profondità di sentire», radice positiva della poesia foscoliana, dalla immaturità e «puerilità» del pensiero, da un’assoluta mancanza di «facoltà discorsive e raziocinative» che originerebbero il difetto centrale della sua prosa[50].

Ma anche queste limitazioni di cattolici-manzoniani (che in parte il De Sanctis riprese con diversa motivazione per quanto riguarda la prosa ortisiana) appaiono sempre piú sporadiche e deboli di fronte al prevalere deciso della glorificazione laico-risorgimentale di origine mazziniana, la quale si viene ora sviluppando in nuove figurazioni apologetiche della personalità foscoliana, diversamente accese o prudenti nei riguardi del «pensiero» foscoliano, diversamente ricche di spunti critici, ma tutte concorrenti nella decisa esaltazione del profetico poeta della patria risorta, dell’autore dell’Ortis, simbolo della risorgimentale disperazione per mancanza di patria, e dei Sepolcri, simbolo altissimo della morte e resurrezione della patria e della stessa vicenda drammatica del Risorgimento[51]. Piú cauta e mazziniana nella distinzione fra animo e pensiero, cui il sensismo avrebbe «tagliato le penne», quella assai mediocre di Alberto Mario[52]; entusiastica e assoluta quella dell’Emiliani-Giudici che, in aspra polemica contro i clericali[53], svolge la figura esemplare creata dal Mazzini in quella dell’«imperterrito apostolo del vero» assolutamente coerente nel suo «concetto» («sempre lo stesso e sempre con piú vigoroso ragionamento sviluppato ed espresso con crescente fervore»); piú organica e valida quella del Cattaneo, che, mentre riassumeva in una frase celebre uno dei valori essenziali del Foscolo per il Risorgimento («diede all’Italia un’istituzione: l’esilio»[54]) e assicurava il definitivo cambiamento del giudizio sul valore morale dell’Ortis[55], portava anche giudizi notevoli sulle ragioni autobiografiche della critica foscoliana o confermava in forma assai interessante i limiti e della vera «popolarità» e «democraticità» foscoliane della comprensione ottocentesca nei riguardi delle Grazie[56].

Queste «raffigurazioni apologetiche» (come le chiamò il Carducci[57]) costituiscono una base sicura alla grandezza riconosciuta dell’uomo e dello scrittore, definitivamente sottratto alle vecchie valutazioni depressive, ai vecchi paragoni, e innalzato, soprattutto come poeta dei Sepolcri (e come tale soprattutto lo sentirà anche il De Sanctis che ai Sepolcri dedicò le pagine piú ispirate e profonde del suo saggio), fra i piú grandi poeti italiani. E se esse implicano l’evidente pericolo di una deformazione della poesia foscoliana nei suoi valori piú intimi ed estetici, e del suo significato storico troppo risolto in puri termini patriottici[58], un irrigidimento della complessa figura foscoliana nelle linee atteggiate di una statua grandiosa ed enfatica[59], esse pur rappresentano un momento di adesione intensa del sentimento e del gusto romantico-risorgimentale[60], entro cui poteva piú spontaneamente giustificarsi quella ricostruzione appassionata e critica della personalità e dell’opera foscoliana che fu il grande saggio desanctisiano del ’71. Saggio che, mentre recupera, a suo modo, anche certe sollecitazioni delle limitazioni degli avversari piú acuti (specialmente nei riguardi dell’Ortis, dei contrasti dell’animo e della cultura foscoliana, della prosa precedente a quella dell’opera critica) e riprende dal Mazzini – spostandolo sul piano delle sue nuove esigenze realistiche – il rilievo del valore e del limite dell’esemplarità foscoliana nella storia attiva della nazione italiana, trova, ripeto, un primo stimolo sentimentale nell’appassionata simpatia dell’epoca romantica e criticamente e originalmente ne traduce e ne spiega le preferenze e le accentuazioni nei riguardi delle varie opere foscoliane, nella direzione, per usare termini foscoliani, piú del «passionato» che del «mirabile», piú del poeta della religione romantica della patria e della libertà che del poeta della religione dell’armonia verso cui (e a volte pur con accentuazioni indebite di estetismo e di raffinata purezza lirica) la critica novecentesca piú volgerà la sua attenzione, ormai fuori – e spesso in contrasto reattivo – delle condizioni di gusto e di sentimento storico che legano il De Sanctis all’epoca romantico-risorgimentale.

3. Il saggio del De Sanctis.

Il Foscolo entrò piuttosto tardi nel cerchio piú vivo e profondo dell’attenzione critica del De Sanctis, che nelle giovanili lezioni napoletane aveva dedicato pagine interessanti, ma poco centrali e impegnative, ad un poeta che non ebbe la importanza essenziale del Leopardi nella sua formazione letteraria e spirituale né lo sollecitò, come il Manzoni, ad un particolare svolgimento del suo animo e del suo gusto verso ideali di concretezza e di modernità linguistica e poetica. L’interesse desanctisiano piú vivo per il Foscolo si precisò solo piú tardi, nello stimolo di un atteggiamento polemico di difesa e giustificazione del valore poetico e storico-risorgimentale del poeta, che ha analogia con quello di altri scrittori dell’epoca, anche se è già caratterizzato da una diversa intuizione critica della essenziale natura poetica della personalità foscoliana ed è disposto quindi a svolgersi coerentemente in una diretta interpretazione sollecitata da una sostanziale consonanza con il generale riconoscimento, da parte del gusto e del sentimento del suo tempo, della grandezza del Foscolo: il cui valore storico dové apparire piú chiaramente al De Sanctis negli anni della sua piena maturità e del suo prevalente interesse di storico della letteratura italiana come storia del popolo italiano, specie per la eccezionale novità che quel poeta (il «liber uomo» Ugo Foscolo, il restitutore della integrità della coscienza morale, della integrità della fantasia e del giudizio critico) rappresentava nella crisi profonda da cui erano nati il Risorgimento e la nuova letteratura.

La premessa del saggio del ’71 è dunque soprattutto da ricercare nel saggio del ’55, Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo[61], che, controbattendo le affermazioni dello storico tedesco sul «Catone cortigiano», sulla sua «natura cinica, contraddittoria e diversa in parola e in opera», spiegava quelle contraddizioni e il classicismo foscoliano («classicismo borghese» e progressivo) nella origine storica della poesia foscoliana, lirica espressione di un’epoca feconda, di una crisi salutare del popolo italiano: «Ugo Foscolo non rappresenta per noi alcun sistema politico, alcun ordine regolato d’idee. Egli è stato un’espressione poetica dei nostri piú intimi sentimenti, il cuore italiano nella sua ultima potenza. Noi ci sentiamo in lui idealizzati... la contraddizione di Foscolo era quella di tutti gli italiani... Noi volevamo una patria e la patria fu per noi tutto. Il classicismo non fu dunque per noi una società morta; fu la nuova società sotto nomi antichi»[62]. Preludio importante, chiarificazione di una passione lucida e disposta a spiegarsi storicamente (non agiograficamente e pragmaticamente come in Mazzini) e a riscaldare, non soffocare, una vera ricostruzione critico-storica della personalità poetica foscoliana. E tale fu il saggio Ugo Foscolo poeta e critico, scritto nel 1871[63] in occasione del trasporto delle ceneri del poeta dal cimitero di Chiswick a Santa Croce e quindi intimamente sollecitato da una forte tensione sentimentale, ma ben diverso da una contingente celebrazione oratoria e profondamente corrispondente a un meditato ritratto critico che il De Sanctis poté, con una semplice riduzione, accettare, nelle sue linee essenziali, nella stessa Storia della letteratura italiana. In quell’anno di celebrazioni fra retoriche e timide, fra le preoccupazioni del governo pauroso di tumulti mazziniani[64] e le invettive del Carducci repubblicano contro «il bello italo regno» e Tersite che erge «la deforme spalla sul tumulo d’Ajace»[65], il saggio desanctisiano superò nettamente i pericoli dell’occasione e, mentre accoglieva e precisava l’invito mazziniano a sentire la personalità foscoliana nel suo profondo accento unitario, nella sua sostanziale positività, la interpretava nei suoi valori poetici e critici, la ricostruiva in una potente linea di svolgimento dinamico, che, pur nella sua concisione, costituí il paradigma essenziale per gli studiosi successivi offrendo ad essi non solo centri fondamentali di giudizio, ma appunto una salda parabola i cui punti di passaggio sono stati oggetto di discussione, di approfondimento e di revisione solo nella fase novecentesca della critica foscoliana. E se questa, servendosi dei nuovi elementi di studio, in parte offerti dal lavoro erudito del metodo storico, in parte frutto delle proprie nuove ricerche e di una piú sicura coscienza estetica (oltre che delle sollecitazioni di un nuovo gusto letterario e poetico piú adatto a comprendere gli aspetti meno drammatici della personalità e della poesia foscoliana), giungerà ad un’immagine del Foscolo piú complessa e piú aderente, e ben diversamente consapevole degli alti impegni artistici dello scrittore e della sua suprema aspirazione all’armonia, essa dovrà pur riconoscere in quel saggio la prima solida base di una interpretazione dinamica e storica della personalità foscoliana, un disegno esemplare (anche se rapido e poco approfondito nelle pieghe piú minute e spesso piú sottilmente significative del ritratto foscoliano che vengono a volte sacrificate in chiaroscuri e in tagli affrettati e schematici) dello svolgimento del poeta e dell’uomo entro la storia del suo tempo. E in molti casi dovrà pur riconoscere l’offerta concreta di problemi per la prima volta impostati e di giudizi variamente resistenti ancora in molte delle interpretazioni contemporanee, nelle quali a volte si avvertono anche le tracce negative della tipica tendenza psicologico-romantica desanctisiana, ma alle quali è comunque essenziale lo stimolo e l’esempio di quella ricostruzione dinamica e storica, centrale ed unitaria, che, nel suo tempo, ebbe oltre tutto il merito di sciogliere la staticità della «statua» risorgimentale e di recuperare persino, in un movimento di dramma personale e storico in funzione della poesia, alcune delle osservazioni degli avversari del Foscolo sulle sue «contraddizioni», liberandole dalla loro funzione di stroncatura e svalutazione.

Il De Sanctis infatti puntava soprattutto, nel suo saggio, sull’anima foscoliana e sul suo sviluppo nella storia del primo Ottocento italiano, insistendo sull’incontro di storicità e di situazione poetica a cui il suo essenziale amore del concreto lo sollecitava e da cui la preminenza e il valore pieno dei Sepolcri, piú genericamente affermati dalla critica precedente, scaturivano con forza particolare, come espressione appunto di un momento della storia italiana (sullo sfondo meno approfondito del movimento europeo), interpretata originalmente da una personalità che giunge alla sua maturità in questo fecondo accordo storico, svincolandosi dalle forme piú generiche della moda letteraria e della crisi della giovinezza pur legata alla crisi piú vasta di un periodo storico, carico di fermenti e di velleità.

La prima attività foscoliana è cosí precisata nel suo eclettismo, nel faticoso consolidarsi dell’anima poetica foscoliana che dalle «reminiscenze» letterarie affiora nella sua potenza, nella sua ricchezza di germi e nel suo accento piú violentemente caratteristico, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Qui la crisi del secolo, a cui il De Sanctis aveva giustamente collegato già le ansie e i tentativi del periodo precedente, raggiunge il suo punto piú drammatico e vistoso e la personalità foscoliana, nel ritratto Ugo-Jacopo (che nel De Sanctis non conosce poi la correzione e l’arricchimento di Didimo), appare ancora in «uno stato morboso», in una mancanza di vero «limite della realtà», in un esuberante bisogno di sfogo drammatico-lirico che non può trovare espressione vera di romanzo (che è invece assegnata, come forma di equilibrio di compiuta storia psicologica, al Werther[66]) e si riduce ad una ibrida «poesia in prosa», fallimento di romanzo e fallimento di lirica. Scartati i vecchi pregiudizi moralistici, il De Sanctis, che non poté considerare la complessità di sviluppo e di elaborazione dell’Ortis nei suoi strati (e pur intuí se non altro tale sua particolare costruzione e natura[67]), limitò l’opera in quanto confusione fra narrazione e lirismo, giustificando però i vecchi giudizi in base al suo strumento critico della «situazione» e alla sua essenziale esigenza di organicità: «Una situazione cosí esaltata nel suo lirismo, non può troppo protrarsi senza che la diventi monotona e sazievole»[68]. E mentre ne indicava il limite soprattutto nella sua tensione eccessiva e nel suo carattere di «vuota idealità» in urto con la realtà, non mancava di avvertirne comunque il significato storico: «Questi fenomeni non sono dunque capricci individuali, sono necessità psicologiche della storia»[69].

La critica novecentesca, dal Donadoni in poi, rileverà piú esattamente l’importanza dell’Ortis come vivaio di motivi, di germi fecondati e sviluppati nelle opere seguenti, smorzerà in genere il brusco stacco fra la «vuota idealità» e la concretezza successiva, ma, anche nelle nuove analisi piú positive, usufruirà pur sempre delle limitazioni critiche desanctisiane circa la natura composita, liricheggiante dell’Ortis (sia pure motivate con altri ausili filologici e piuttosto svolte in caratteristiche che in puri limiti), e del valido legame storico da lui stabilito con la crisi postrivoluzionaria e prerisorgimentale. Come essa farà anche, pur con correzioni e approfondimenti sempre maggiori, per il passaggio dall’Ortis ai Sepolcri attraverso Odi e Sonetti, riprendendo la formula desanctisiana della «guarigione» nel rinnovato «esercizio della vita», documentata dalle odi nel loro «classicismo a colori vivi e nuovi», o risentendo comunque lo stimolo di questa prima importantissima sistemazione, di questo primo collegamento intimo di componimenti fino allora quasi sempre allineati in esterna successione[70].

Ancora piú efficaci sono le pagine in cui il De Sanctis passa al quarto momento del suo saggio, là dove egli può trovare il piú profondo accordo fra lo spirito foscoliano nella sua serietà e vitalità, fra il suo mondo nobile e «non smentito dalla vita», e la storia (non piú in un momento di crisi, ma di moto fecondo), fra gli ideali foscoliani e la realtà, fra l’«artista» e il «poeta»: il che avviene nei Sepolcri dove tutte le forze dell’animo foscoliano, fino allora «sparpagliate, esitanti, che non avevano ancora trovato un centro, sono raccolte e riconciliate, in questo mondo pieno e concreto, dove ciascuna trova nelle altre il suo limite e la sua misura»[71]. «Poeta» e «profeta» (per ricordare termini mazziniani che qui trovano ripresa e superamento) si uniscono all’«artista», il classicismo, la stessa mitologia si fanno «contemporanei», «umani», «penetrati o fusi da un solo spirito», in accordo con le piú alte passioni del tempo (traduzione critica della fusione foscoliana di «mirabile» e «passionato»): storia e mito si fondono in «situazioni» piene e centrali nell’animo del poeta e nel moto della storia della sua epoca, e l’accento di una poesia tutta intima raggiunge un’intensità religiosa in quanto rappresenta un incontro di coscienza e fantasia nel poeta e l’annunzio «della risurrezione di un mondo interiore in un popolo oscillante tra l’ipocrisia e la negazione». Tutte le parole piú caratteristiche degli ideali critici ed etici del De Sanctis vengono qui raccolte e adibite a rendere questa impressione di pienezza e di creatività, di intimità e di storicità dei Sepolcri: «Tale è questo mondo di Foscolo: il risorgimento delle illusioni accanto al risorgimento della coscienza umana. L’immaginazione non sta per sé, non lavora dal difuori, come è in V. Monti, ma è il prodotto della coscienza, è fatta attiva dai sentimenti piú delicati e piú virili della vita pubblica e privata. O piuttosto non è semplice immaginazione, è fantasia, che è nell’arte quello che nella vita è la coscienza, il centro universale e armonico dello spirito»[72]. Il passaggio dalla «vuota idealità» e dal pessimismo dell’Ortis a questo mondo pieno e concreto è mediato nella continuità dell’uomo e del poeta («non è già che Foscolo smentisca se stesso. C’è sempre in lui del vecchio Jacopo») appunto dal nuovo «grado di verità e misura che è proprio di un ingegno già maturo» e da questa unitaria attività della coscienza-fantasia per cui le illusioni vivono come valori effettivi, allo stesso modo dei fantasmi poetici «che appena abbozzati ti si compiono nell’orecchio, e per la sola virtú dell’armonia».

L’impressione della vitalità intera dei Sepolcri è nel De Sanctis cosí forte, e cosí forte è quella della loro positività, del loro «sí» alla vita al di sopra della morte, che ogni possibile limitazione è assente nel saggio e piú che la varia vita del carme sono rilevati i suoi caratteri essenziali, come il «chiaroscuro di un effetto irresistibile»[73] che diviene espressione dello «stesso genio del Foscolo, mescolanza di sentimentale e di energico», e che trova il suo simbolo piú alto e affascinante per il critico nel passo in cui il sole è portato dagli uomini a illuminare la sotterranea notte: simbolo della vittoria della vita, delle illusioni-valori sul pessimismo ed elemento di accordo, in realizzata poesia, con la fede attiva di un romanticismo virile e progressivo.

Dopo quel momento supremo di adesione del critico al mondo del poeta e alla sua realizzazione, piú definita e sentita nella sua pienezza che discussa ed esaminata nelle sue parti e nella sua varia intensità (ed anche qui conta soprattutto la giustificazione risoluta del capolavoro[74], l’energica realizzazione critica di una valutazione elogiativa fino allora o sentimentale o formalistica) comincia nel saggio la parte discendente della parabola, che pure è contraddistinta da un acquisto della massima importanza nella valutazione alta e nuova del Foscolo critico[75].

Mentre i Sepolcri rappresentavano per il De Sanctis una eccezionale sintesi di storia e poesia, di poesia e arte, di fantasia e coscienza, il trionfo poetico di un risorgimento personale e storico di illusioni-valori, le Grazie gli apparvero solo come l’ultimo stanco moto di una tensione vitale e poetica esauritasi sostanzialmente nel carme. Non che egli fosse colpito dalla condizione di incompiutezza delle Grazie, che egli evidentemente accettava nel rimaneggiamento unificatore dell’Orlandini senza poter sfruttare quell’argomento di possibile condanna che sarà invece poco dopo utilizzato acutamente dal Bonghi[76], ma è piuttosto la costatazione del loro carattere didascalico («non è dunque piú una poesia, ma una lezione con accessorii poetici»), del loro velo allegorico, a motivare la sua violenta reazione contro la presunta astrattezza degli Inni: «Il velo delle Grazie varrà bene il cinto di Venere; ma se mi vuole sforzare a guardarci sotto una storia, io l’odio e non lo guardo piú. Se è lecito comparare le piccole cose con le grandi, dai Sepolcri alle Grazie corre quella relazione che tra la Margherita e l’Elena, tra la prima e la seconda parte del Faust. L’astrazione che è nel concetto si comunica anche alla forma, raggomitolata, incastonata, lucida e fredda come una pietra preziosa»[77]. Sotto quel velo allegorico non si trovava per lui che «una storia volgare», un semplice «concetto» («la tranquillità dell’anima risanata dalle passioni») vecchio, classicistico e puramente intellettuale, poiché non vive nel «cuore» e nella «vita» del poeta e questa continua ad essere «turbolenta, scissa, con tante velleità, fra tante contraddizioni»[78]. Giacché quel concetto «rimase in lui ozioso: rimase aristotelico o epicureo: non divenne Foscolo. E vien fuori con tutto l’apparato dell’erudizione, in una forma finita, dell’ultima perfezione: ci si vede l’artista consumato; appena ci è piú il poeta»[79]. Tuttavia nel saggio questa condanna cosí risoluta, e coerente con il gusto desanctisiano nei suoi limiti e nella sua consonanza con una generale posizione del romanticismo italiano[80], e d’altra parte cosí suggestiva da condizionare per molto tempo la lettura critica delle Grazie, si svolgeva poi in una finale esaltazione del critico, la cui nascita era riscontrata nelle stesse Grazie («le Grazie segnano già il passaggio alla critica») e di cui il De Sanctis profondamente riscatta la novità rivoluzionaria nell’indagine storica ed estetico-psicologica: «Foscolo è il primo tra’ critici italiani che considera un lavoro d’arte come un fenomeno psicologico e ne cerca i motivi nell’anima dello scrittore e nell’ambiente del secolo in cui nacque»[81]. Mentre, nella Storia della letteratura italiana, il critico accentua ancor piú la condanna delle Grazie, legate non solo al declino del «poeta» a vantaggio dell’«artista», ma alla contraddittoria posizione storica del Foscolo, che con i Sepolcri «batteva alle porte del secolo decimonono», con le sue intuizioni critiche «apriva la via al nuovo secolo» e invece con le Grazie tornava ad un classicismo superato, ad una concezione statica ed antistorica della vita e dell’arte. Sicché la ragione piú profonda del fallimento di quel poema diventava la discordanza nell’animo del Foscolo fra la sua intima tendenza romantica e la sua reazione neoclassica, fra la sua accettazione della realtà e del movimento della storia e la difesa delle idee del secolo XVIII: «Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo pacifico e logico, l’ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel progresso vestiva aspetti di reazione, e in quella una forma negativa e violenta offendeva le idee e le forme di un secolo, del quale il Foscolo si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se stesso. E quando aveva già moderate molte sue opinioni religiose e politiche e s’era fatto della vita un concetto piú reale, e s’era spogliata gran parte delle sue illusioni, quando stava con l’un pié nel nuovo secolo, calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle sue contraddizioni, finí tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida, le sue Grazie, l’ultimo fiore del classicismo italiano»[82].

Non occorrerà insistere sull’evidente inaccettabilità di una simile diagnosi dell’ultima poesia foscoliana (contro la quale si è svolta proprio gran parte della critica foscoliana del Novecento) ed è chiaro che in questa incomprensione delle Grazie e del loro valore, essenziale per tutta la valutazione della personalità foscoliana e del suo svolgimento, meglio si precisano i limiti di tutta l’interpretazione del De Sanctis, condizionata dai suoi noti principî romantico-realistici, dal pericolo dello psicologismo, dalla distinzione «poeta»-«artista», nonché da quella stessa tendenza particolare della sua esigenza di storicizzazione che poteva indurlo ad una valutazione troppo funzionale della poesia rispetto ai propri schemi storico-ideologici, specie nell’ambito della letteratura italiana dell’Ottocento[83]. Come il finale paragone del saggio tra il Foscolo e la nuova epoca, esortata al senso della «misura », della «realtà» rispetto alla esaltazione ideale dell’epoca risorgimentale, implicava il pericolo di una valutazione ancora a suo modo pragmatica e perciò incapace di considerare la poesia foscoliana al di là di quella discussione sul suo valore esemplare per le nuove generazioni, che aveva insieme sollecitato e limitato la interpretazione foscoliana da parte della critica romantica. Ma questi limiti, legati in parte alle stesse ragioni della forza critica del De Sanctis, del suo potente istinto storico, non ci impediscono di valutare l’eccezionale importanza del suo saggio foscoliano, stimolante persin nei suoi errori, primo paradigma di ogni futura ricostruzione critica e storica, oltreché, nelle sue stesse incomprensioni e nei suoi silenzi (le Grazie e il Foscolo sterniano e didimeo soprattutto), alta e originale giustificazione critica delle possibilità e dei limiti di comprensione della poesia foscoliana da parte del gusto romantico-realistico italiano: il quale naturalmente vedeva in quella piú l’aspetto lirico-passionale, patriottico-storico che non quello del religioso vate dell’armonia, assiduamente impegnato a superare in serenità e intimo equilibrio la drammaticità del suo animo e della sua esperienza di vita.

4. Gli studi del «metodo storico» e il Carducci.

Nel periodo che va dal saggio desanctisiano (1871) a quello del Donadoni (1910) (mentre Foscolo – con l’Ortis, i Sepolcri ma anche con la prosa «didimea» – agisce fortemente sugli Scapigliati che vedono in lui un loro precursore, da Rovani a Tarchetti, da Cameroni a Pinchetti che, in uno scritto del ’69[84], ne faceva un «poeta maledetto») sproporzionata è la ricchezza di contributi e studi eruditi, biografici, filologici rispetto allo svolgimento della critica propriamente detta. Né occorrerà qui giustificare lungamente un simile stato di fatto se non con l’ovvia considerazione che il metodo storico, cosí poco dotato quanto a vero senso dei valori e a gusto della poesia, rivolse tutto il suo vero interesse alla indagine erudita e in quella ebbe i suoi validi meriti, rappresentando anche per gli studi foscoliani un momento essenziale e in certo modo la base stessa di una nuova critica che, pur reagendo alla opacità e insufficienza estetica degli studiosi positivistici, ne utilizzò i risultati ottenuti nel campo della ricerca erudita, storico-culturale, filologica superando cosí anche per questa via le incertezze della critica romantica, le sue intenzioni apologetiche o polemiche (di cui tuttavia non mancarono echi piú stanchi anche nel periodo positivistico[85]): utilizzazione tanto piú sicura nella fase piú recente della critica, che al rigore scientifico del metodo storico (meglio realizzato nel suo valore funzionale e in una nuova ricchezza e precisione di procedimenti tecnici) aggiunge una piú profonda coscienza storicistica ed estetica.

Non potremo certo qui ricordare tutti i contributi particolari del periodo del metodo storico, ma basterà comunque rilevare la grande utilità del lavoro filologico, erudito, biografico di quegli anni, documentabile soprattutto nelle ricerche e ricostruzioni biografiche di C. Antona Traversi, di G.A. Martinetti, di G. Chiarini[86], nelle edizioni, di vario valore filologico, delle poesie (G. Biagi, G. Chiarini, G. Mestica, C. Antona Traversi[87]) e dell’Ortis (Martinetti e Antona Traversi[88]), nei commenti di carattere erudito-linguistico dei Sepolcri, delle Grazie, delle poesie e prose scelte (A. Ugoletti, G. A. Martinetti, F. Trevisan, U. A. Canello, E. Mestica, R. Fornaciari, T. Casini, S. Ferrari[89]), nella raccolta e pubblicazione di lettere inedite (G. S. Perosino, A. Avoli, G. Chiarini, G. Mestica, E. Del Cerro e soprattutto l’infaticabile D. Bianchini[90]), negli studi numerosi sulle «fonti» delle opere foscoliane, sui loro rapporti e «paralleli» con le letterature straniere (V. Cian, B. Zumbini, G. Zanella), specie per quel che riguarda l’Ortis e il confronto col Werther ed altre opere preromantiche (B. Zumbini, F. Zschech, F. Donaver), e la cosiddetta genesi dei Sepolcri (G. Biadego, A. Ugoletti, C. Antona Traversi, F. Torraca, F. Novati, S. Peri[91]).

Ma proprio nella lunga discussione sul «sopruso» foscoliano ai danni del Pindemonte nella composizione dei Sepolcri e nelle piú generali ricerche sulle «fonti» e sui «debiti» foscoliani (pur cosí utili a volte, e sollecitanti per una indagine sulla cultura[92], sulla formazione della poetica foscoliana) si può misurare l’evidente incapacità di quegli studiosi di comprendere quei diritti del genio poetico cui chiaramente rinviava lo stesso Foscolo[93] e di giustificare criticamente nella loro trasformazione originale i presunti plagi, di superare cronaca e raccolta di fatti e di citazioni in autentica storia. E in tutto l’appassionato lavoro erudito di quell’epoca non si può non avvertire una certa generale miopia, una sostanziale inadeguatezza di intelligenza e di sensibilità di fronte ad una poesia e ad una personalità cosí complessa e aristocratica, uno smarrimento e una angustia nel confronto con una parola poetica cosí intensamente lirica, con ragioni ideali cosí profonde. Donde deriva un effettivo sfasamento, una deformazione involontaria nei risultati diretti di queste ricerche, nella interpretazione critica e storica da parte degli studiosi del metodo storico dei dati preziosi da loro cosí utilmente raccolti.

Cosí nelle indagini biografiche la mancata coscienza dei loro limiti e della loro utilizzazione conduce ad appiattire in sequenze cronachistiche i possibili rilievi di un complesso svolgimento spirituale, culturale, poetico o ad esitare fra il riconoscimento piuttosto generico di una indiscriminata grandezza e curiosità mediocri per gli aspetti esteriori delle traversie finanziarie del poeta e per i suoi «amori»[94]. Cosí negli studi comparativi, in quelli sulle fonti, nei commenti prevalgono spesso un computo di «dare ed avere», una dissoluzione della poesia in puro contenuto e in stile astrattamente inteso. Sicché anche nei commenti – pur cosí utili e addirittura fondamentali per una spiegazione letterale-erudita e linguistica, e per la raccolta di passi e temi della letteratura antica e moderna a sostegno di passi e temi foscoliani – l’apporto critico diretto si riduce a discussioni sul grezzo contenuto o sulla chiarezza e proprietà espressiva delle potenti immagini foscoliane, e la profonda musica foscoliana viene semmai misurata sul metro della «armonia imitativa» e ritrovata perciò soprattutto in passi piú eloquenti e sonanti, come capacità di efficacia onomatopeica o di evidenza verisimile[95]. Mentre poi il «genio», la poesia, la vita interiore del Foscolo vennero sottoposti alle umilianti visite medico-antropologiche degli «scienziati»[96], che, nella loro tendenza particolare, rappresentano l’aspetto estremo dell’atteggiamento positivistico (e non perciò senz’altro di tutto il «metodo storico»), assai incerto anche quando si rivolge al pensiero del Foscolo e alla sua ideologia e posizione politica: come si può vedere nelle interpretazioni (del resto ben poco autorevoli) del pensiero del Foscolo quale precisa anticipazione del positivismo[97] o nelle giustificazioni della sua coerenza politica, incapaci di un duttile raccordo di quella posizione e di quella prassi con le vicende del tempo, con le correnti sentimentali e speculative al cui contatto esse si dialettizzano e si chiariscono[98].

Naturalmente occorre dare un posto particolare, in questo quadro della critica foscoliana nell’ultimo Ottocento, all’attività del Carducci, anche se dal suo amore per il Foscolo (cosí importante nella sua formazione letteraria[99]), dalla sua precisa esigenza di un giudizio ispirato a maggior «conoscenza d’arte»[100], dal suo interesse critico-tecnico per una poesia cosí elaborata, ci si sarebbe potuti attendere un contributo anche maggiore e un’attenzione critica piú costante e applicata a tutta l’opera e soprattutto ai capolavori della maturità foscoliana.

Il giudizio carducciano riguarda infatti solo l’attività giovanile del Foscolo, studiata nel saggio dell’82, Adolescenza e gioventú poetica di Ugo Foscolo, nato come recensione alla edizione Vigo del Chiarini e interrotto rispetto all’iniziale promessa di ripercorrere tutta la lirica foscoliana[101]. Ma, entro questi limiti di argomento che non permisero al Carducci di risalire ad un giudizio centrale della lirica foscoliana, quel saggio rimane fondamentale come modello di ricostruzione della formazione poetica foscoliana, integrando (sia pure con minor senso della storia dell’epoca rivoluzionaria e con la mancanza di un vero giudizio sull’Ortis e sul Tieste non considerati perché estranei all’edizione Chiarini di cui il saggio era recensione) la prima parte del saggio desanctisiano con una diversa attenzione al «noviziato artistico» del giovane poeta, ai suoi precisi contatti con le mode letterarie del tempo, alle prime «novità da lui portate nella lingua poetica», all’indicatività in tal senso degli sciolti Al sole e soprattutto, nella seconda parte[102], con una migliore precisazione di passaggi e di svolgimento entro il corpus dei sonetti e delle odi, saldamente distinto in due serie: quella dei primi otto sonetti e della prima ode («quasi intermezzo di riposo») piú vicini all’Ortis e alfieriani, e quella degli ultimi quattro sonetti e della grande ode, in cui la poesia si fa piú pura, serena e universale («mentre nei primi sonetti si divincolava lo spasimo individuale, in questi sentesi nella sua fatalità quasi serena la doglia mondiale»[103]). Non direi però che i singoli giudizi (tutti assai rapidi, data la natura dello scritto) portino sempre contributi di profondo interesse e, mentre appare molto discutibile certo entusiasmo eccessivo di fronte ai sonetti amorosi del primo periodo («bellissimo» è detto, ad esempio, quello che inizia Cosí gl’interi giorni), dispiace che per la grande ode milanese il critico ricorra a giudizi del Chiarini e del De Sanctis aggiungendo di suo solo qualche interessante rilievo di «rimembranze» latine, qualche espressione di intensa ammirazione («una stupenda perfezione marmorea») e la dichiarazione «che gli elementi e le forze della rinnovazione fatta dal Foscolo nella lirica italiana provengono in gran parte dal sangue e dal sentimento greco»[104].

Piú ancora che l’importanza dei singoli giudizi va dunque sottolineata quella della precisazione dello svolgimento giovanile foscoliano e l’intuizione, variamente approfondita, della modernità e dell’intimità del classicismo del Foscolo, che aveva già trovato espressione assai efficace nell’immagine del poeta moderno-classico (piú che classicista), turbato e sereno, appassionato e bisognoso di un superamento poetico delle proprie passioni, ricco di antinomie, ma capace di superarle poeticamente, quale si può recuperare entro le brevi pagine dedicate al Foscolo nel discorso Del rinnovamento letterario in Italia (1874): «E il poeta contorcendosi seguiva pure con gli occhi angosciosi i grandi ideali umani e ricercava le cime quiete della poesia; e con una lirica, fantastica e insieme sentimentale, intima e di molti toni, colorata, senza esempi, trasportava nella serenità omerica e pindarica il dubbio e il dolore moderno, con un presentimento del risorgente ellenismo. Per tutto ciò il Foscolo è il primo scrittore moderno della nostra letteratura e con quel contrasto tra l’azione e il pensiero, tra la negazione e la fede, tra l’antico e il nuovo segna il momento di passaggio della vita italiana»[105]. Una immagine, piú che una spiegata formulazione critica, in cui, tuttavia, il Carducci, intuendo la complessità del Foscolo, la presenza e la soluzione del suo dramma personale e storico in poesia e la validità del suo classicismo, offre una notevole intuizione alla critica successiva, alla quale l’ultimo Ottocento non offriva, in sede direttamente critica, altri stimoli veramente apprezzabili: se non forse quelli dello Zanella con la sua incerta tesi della sentimentalizzazione foscoliana del classicismo[106], e quelli delle pagine del Graf, che, pur cosí preparatorie, psicologiche e spesso confuse, importano una indagine nell’animo foscoliano che poté esser fruttuosa per gli studi idealistici del primo Novecento sulla spiritualità e sul pensiero estetico del Foscolo nei loro legami con il romanticismo[107]. Studi che, con un nuovo senso della personalità spirituale, storica e poetica del Foscolo, erano in grado di poter utilizzare ben diversamente il ricco materiale offerto dagli studi biografici ed eruditi del metodo storico.

5. La critica foscoliana nel periodo idealistico.

All’inizio del nuovo secolo, accanto alla prosecuzione degli studi del metodo storico, le nuove esigenze estetiche, filosofiche, storiche della cultura idealistica investono con forza sempre maggiore il problema critico foscoliano. Certo in vari casi si tratta di velleità senza vero corrispettivo critico, di vaghe intenzioni di interpretazione estetica esercitate soprattutto sui Sepolcri, con evidenti equivoci fra analisi estetica e analisi psicologica cosí caratteristici di una fase stimolata ma non ancora profondamente chiarita dall’essenziale rinnovamento crociano[108]. Ma ben presto anche le ricerche sulla cultura e sul pensiero foscoliano, avvalendosi del nuovo metodo storicistico, di un senso piú sicuro della personalità creatrice e dei suoi rapporti con la cultura e il pensiero della propria epoca e della tradizione precedente, vengono assicurando alla personalità e alla poesia foscoliana alcuni degli elementi caratteristici e fecondi della cultura che la alimentò, alcune delle ragioni concrete della sua vitalità storica, e avviando una storicizzazione piú sicura e positiva di quella personalità, nei suoi legami con movimenti culturali fecondi e sviluppi di pensiero che il nuovo storicismo idealistico considerava particolarmente validi nella formazione dei pensiero e dell’estetica moderni. Cosí il Borgese nella sua Storia della critica romantica in Italia[109] rilevava nel pensiero del Foscolo quell’elemento vichiano che il Tommaseo aveva indicato e sostanzialmente negato e che la critica ottocentesca aveva in generale trascurato, e G. Rossi studiava insieme l’importante presenza di elementi del pensiero del Vico e del Conti nella poetica foscoliana, in un saggio[110] che è pure notevole quale indice di una nuova attenzione alle Grazie. Nuova attenzione che si originava anche nel contatto con la poesia dannunziana a cui la poesia delle Grazie poteva venire paragonata quanto piú (anche in relazione a nuovi rilievi della sua poetica della «arcana armoniosa melodia pittrice»[111]) la si sentiva come poesia pittorico-descrittiva: con la conseguenza di una deformazione evidente – e protrattasi a lungo – della vera intonazione di quella poesia piú musicale che pittorica, e della sua tensione sobria e profonda, nel paragone con il sensualismo estetico dannunziano, che pure, in quel caso, ebbe l’effetto di sbloccare – almeno come stimolo di nuova attenzione e lettura – l’indifferenza prevalente nell’epoca romantica e in quella positivistica (mentre da altro versante il classicismo, il verso sciolto, il presimbolismo, la componente «didimea» di Foscolo venivano esaltati e curiosamente assimilati dal Lucini e, nell’area vociana, il Soffici particolarmente rivelava l’altezza del Foscolo didimeo, per piú tardi «foscoleggiare» nella sua lirica classicistico-nazionalistica). Anche se nei riguardi del generale problema foscoliano il nuovo moto di comprensione e d’interesse dei primi decenni del secolo scaturí, piú che dalle sollecitazioni del gusto poetico dannunziano e pascoliano, dalle condizioni della nuova cultura idealistica e specialmente, all’inizio, dal nuovo interesse per il pensiero dei poeti, per il loro mondo interiore spirituale, che è particolarmente caratteristico di una fase della cultura e della critica ricca di esigenze filosofiche e spirituali, fra gl’impulsi del crocianesimo e le tendenze vociane.

Entro questo generale clima culturale nasce la prima interpretazione novecentesca del Foscolo, quella di Eugenio Donadoni nel suo fondamentale studio Ugo Foscolo pensatore, critico e poeta[112]: studio che, superando energicamente i limiti notati delle precedenti indagini, ci riporta all’altezza di tono delle pagine desanctisiane e a quell’accordo fra vita interiore ed espressione poetica, fra cultura, pensiero e impegno storico nell’originale accento dell’uomo e del poeta, che era quasi del tutto sfuggito alle ricerche del metodo storico. Il Donadoni partiva proprio dal rifiuto, risolutamente polemico, di quel metodo e, fedele al suo principio che «l’anima è ciò che piú interessa le anime»[113], si applicava intensamente a riconoscere la personalità foscoliana nel suo centro animatore, nella sua originale unità, nel suo accento inconfondibile, presente pur nei frequenti e caratteristici contrasti interiori, dinamicamente giustificati come «contrasto di energie». Sicché il centro ideale del suo voluminoso studio è costituito da una fondamentale ricerca del mondo interiore del poeta, alla cui luce il critico si propone di valutare «la sua produzione artistica cosí sua e originale di spirito, se non di forma». Certo, già in questa formulazione di inaccettabile distinzione tra «spirito» e «forma» si avvertono i limiti di questo studio di un idealista non ben sicuro metodologicamente e trattenuto ancora in schemi prevalentemente contenutistici e psicologici, e certo il suo generoso sforzo di storicizzare il dramma intimo del Foscolo fra sentimento e ragione nelle condizioni di una cultura contrastante fra illuminismo e romanticismo, fra un hobbesismo eccessivamente accentuato e la spinta rinnovatrice e feconda del vichianesimo, può apparire, di fronte a indagini successive, poco riuscito, anche se fortemente indicativo per un necessario approfondimento della cultura foscoliana nella sua storica situazione e nel suo significativo valore di nutrimento della poesia ed anche se importanti comunque rimangono la discussione del problema dell’influenza vichiana e le stesse riserve limitatrici che conservano tuttora una loro validità di fronte a certe trascrizioni troppo assolute del pensiero foscoliano in puri termini vichiani ed idealistici. Ma ciò che sostiene validamente tutto il libro del Donadoni e le sue indagini sul pensatore, sul critico, sul poeta, e corrisponde piú genuinamente all’interesse donadoniano per la vita interiore dei suoi autori, per il nucleo centrale uomo-poeta, è la appassionata ricerca dell’accento originale dei Foscolo, del timbro della sua anima. E in questa direzione il critico ci offre pagine dense e fondamentali, sia che descriva, in un profondo ritratto del Foscolo, la sua «ragion pratica», il suo speciale pessimismo, la sua «intima bontà», il suo senso religioso, i suoi temi congeniali della compassione e del pudore, sia che rilevi nelle sue idee estetiche e critiche la loro potente «subbiettività», la nuova morale letteraria del poeta, il suo «sacerdozio delle lettere», la sua nuova giustificazione dell’eloquenza, il suo mito del poeta primitivo, la sua nozione del valore della parola, la sua esaltazione della originalità tanto piú sincera e profonda rispetto alla poetica neoclassica. Motivi, questi ultimi, in gran parte nuovi anche se alla lunga un po’ diluiti nella troppo minuta verifica dei singoli giudizi foscoliani su autori e periodi letterari in un repertorio delle opinioni del critico che finisce per squilibrare la proporzione del saggio smorzando la forza sintetica dell’interpretazione.

Questo pericolo di diluizione e di sproporzione è pure evidente nell’ultima parte, quando il critico affronta la poesia foscoliana per vedervi la sintesi del mondo interiore prima esaminato e analizzato e la riprova concreta dei «mutamenti di spirito» legati al diverso e drammatico prevalere di momenti filosofici e sentimentali. L’importante intento di mostrare l’opera foscoliana nelle sue ragioni intime e storiche di svolgimento («meno solitaria forse ma anche piú significativa di un carattere e di un’età») non venne effettivamente realizzato in una storicizzazione poco approfondita e in una ricostruzione interna poco dinamica, che troppo indugia sull’Ortis e troppo rapidamente considera il resto dell’opera poetica foscoliana riprendendo in gran parte lo schema e i passaggi del disegno desanctisiano, al quale la nuova valutazione della cultura, del pensiero, della vita interiore del Foscolo non apportò tutte quelle correzioni che se ne sarebbero potute attendere. E lo stesso studio dell’Ortis come vivaio di motivi foscoliani[114] manca di quella verifica di un dinamico sviluppo dell’opera attraverso le sue redazioni, che poteva utilmente indicare il caratteristico modo di svolgimento a strati e a spirale della poesia foscoliana, il suo procedimento di ripresa e approfondimento di temi in una profonda opera di arricchimento interiore e di tormentoso affinamento stilistico (verifica che venne in parte avviata, alcuni anni dopo, da un importante studio di V. Rossi[115]).

Ma proprio l’attenzione al lavoro dello stile era originariamente debole nel Donadoni (la cui forza peculiare consisteva nello scavo del mondo interiore dei poeti), e tale carenza, tanto piú grave nei confronti di uno scrittore come il Foscolo, si fa particolarmente sentire nell’esame diretto dell’opera lirica in cui il giudizio del critico si fa in genere meno incisivo e rinnovatore. Senonché, giunto alle Grazie, malgrado incertezze e indugi su di una considerazione di quella poesia come documento di posizioni morali, estetiche e persin critiche, il Donadoni, proprio con l’aiuto della sua sensibilità al valore spirituale e personale della poesia e alla presenza di temi individuati nella vita interiore del poeta (in questo caso «la religione dell’armonia»), trova la forza di ribellarsi al giudizio desanctisiano superando le prime concessioni a quella affascinante squalifica delle Grazie come prodotto dell’intelletto, del didascalismo allegorico, dell’involuzione classicista: «Certo le allegorie, le intenzioni sono troppe; ma il poeta c’è ancora: c’è ancora l’espressione di un mondo interiore, e troverei a dire su quella affermazione del De Sanctis che le Grazie siano l’ultimo fiore del classicismo italiano» poiché «il classicismo del Foscolo è tutto suo, ed è perciò poesia», «il classicismo delle Grazie non è ornamento. È abito spirituale; è culto»[116].

Si tratta sí di un’affermazione che non ha adeguato svolgimento in un esame coerente delle Grazie, nel riconoscimento dei loro caratteri particolari e in un pieno giudizio del loro valore e della loro importanza come culmine della poetica foscoliana, ma a nessuno può sfuggire l’apertura fondamentale che essa implica confermando la ricchezza di motivi del saggio donadoniano, la sua importanza di avvio della critica foscoliana novecentesca: la quale attraverso quel libro riprendeva la lezione esemplare del De Sanctis e realizzava con nuova coscienza gli spunti di valutazione positiva del classicismo foscoliano del Carducci, superando cosí uno dei punti morti della critica romantica e insieme accogliendo dal Donadoni l’interpretazione dell’originalità e intimità foscoliana e l’invito ad una nuova considerazione dei rapporti del Foscolo con la cultura viva del Settecento e dell’epoca romantico-neoclassica italiana ed europea.

E proprio in quest’ultima direzione mantengono un loro interesse quegli Studi foscoliani di Giuseppe Manacorda[117], che, pur nella loro incompiutezza e unilateralità, appaiono particolarmente stimolanti nella precisazione del classicismo romantico foscoliano e son cosí indicativi per una fase della critica non ancora pienamente dominata dalla estetica crociana e pur già da essa fecondata e tutta mossa ad una ricostruzione spiritualistica ed idealistica di personalità che la critica positivistica aveva scomposto in elementi di contenuto e di cultura senza riuscire poi a ricomporle e a storicizzarle. Cosí, fedele piú del Donadoni allo schema desanctisiano per quanto riguarda lo svolgimento della poesia foscoliana culminato ed esaurito nei Sepolcri (considerati come un momento di «fugace equilibrio»), il Manacorda tenta invece, sul piano letterario e filosofico, una storicizzazione del problema foscoliano piú vasta e piú particolare di quella abbozzata dal De Sanctis, servendosi, per spiegare il classicismo foscoliano come classicismo ellenizzante di ispirazione romantica e storicistica, sia delle somiglianze di motivi foscoliani con motivi romantici di Hölderlin, Novalis, Fichte, Chateaubriand (e con gli elementi civili e nazionali della corrente neoclassica francese dei Delille, Chénier, Legouvé, Delavigne, già in parte indicati dal Cian[118]), sia, soprattutto per quanto riguarda i Sepolcri alla cui illuminazione punta particolarmente il volume, dell’accertamento piú minuto della presenza di Vico nell’ispirazione storica del carme. Lasciamo stare la formula estrema secondo cui nei Sepolcri ci sarebbe «Vico che canta e non sillogizza», e gli eccessi di una dimostrazione ed esemplificazione troppo puntuale e sforzata; ma, senza dubbio, il saggio del Manacorda portò utili contributi al chiarimento della originalità e storicità del neoclassicismo romantico foscoliano (romantico nei suoi motivi piú profondi e non viceversa in quei particolari scenografici, comunemente ritenuti come concessioni piú esterne al gusto romantico del lugubre e del macabro e dal Manacorda invece spiegati come sviluppo di precedenti classici[119]), e ad allargare dietro la figura del Foscolo quell’orizzonte europeo su cui meglio si può intendere una poesia troppo tradizionalmente isolata nella prospettiva italiana prerisorgimentale o nella semplice tradizione di un classicismo accademico e ornamentale. Come è interessante la ripresa manacordiana del problema donadoniano di una lotta fra elementi sensistici e romantici, anche se questa vien conclusa con una troppo facile e sicura vittoria dei secondi e con il pericolo di uno spostamento della posizione ideale del Foscolo in una zona spesso troppo avanzata di idealismo romantico.

Pericolo del resto in genere assai accentuato in quegli studi sul pensiero foscoliano, che, sull’avvio del libro del Donadoni, caratterizzano un importante momento di interesse per le idee filosofiche foscoliane, il cui minuto esame, utilissimo a rompere l’eccessiva squalifica ottocentesca e ad arricchire la conoscenza del mondo interiore e della cultura del poeta, rischia però di risolverne la particolare drammaticità in una coerenza troppo facile, in termini di una filosofia troppo unitaria e nettamente romantica, e, soprattutto, fuori di quella particolare unità che fu attuata solo nella poesia[120].

A questa storicizzazione idealistica e spiritualistica (cosí importante, malgrado le sue forzature) e alla forte impressione donadoniana della originalità, unità, vitalità dell’animo foscoliano anche nelle sue contraddizioni, va collegata la valutazione, cosí decisamente positiva (e forse sin troppo entusiastica nella sua contrapposizione polemica a certe limitazioni ottocentesche e al «culto» leopardiano di origine rondistica), della vita e della poesia foscoliana nella loro capacità di fecondo svolgimento e nel loro storico significato che il Croce dette nel suo saggio del 1922[121]. In quel saggio breve e denso il Croce infatti muoveva da una disposizione di aperta e profonda simpatia per il Foscolo, la cui vita gli apparve (in contrasto con quella «strozzata» del Leopardi: «il Foscolo visse e si svolse e il povero Leopardi no»[122]) caratterizzata da una virile accettazione, da un concreto esercizio di attività, da un senso vigoroso della storia e della libertà che avrebbe permesso al Foscolo di superare effettivamente la concezione meccanicistica settecentesca e il pessimismo a questa legato e che si sarebbe avvantaggiato della lezione vichiana riaffermata, con varia cautela, da tutta la critica foscoliana del primo Novecento[123].

Riaffermate la positività della vita e l’unità della personalità del Foscolo e persino la fecondità del suo pensiero, il suo vivo e moderno senso storico, la serietà e novità della sua posizione nella critica, il suo concreto impegno e la sua lotta ardua nel momento politico[124], il saggio crociano mira poi ad assicurare alla personalità foscoliana la sua essenziale vocazione poetica, la sua fondamentale liricità, presente anche nella prosa, secondo un’intuizione ottocentesca affermata soprattutto dal Carrer. E, se nel rapido abbozzo di una linea di sviluppo della poesia foscoliana il Croce, riprendendo lo schema desanctisiano e precisi motivi del De Sanctis e del Donadoni, specie nel ribadito legame fra Ortis e Sepolcri, è assai lungi dal presentare una interpretazione fortemente rinnovatrice dei singoli momenti poetici, tuttavia, anche in questa misura meno criticamente impegnativa, egli viene ad arricchire decisamente il problema critico foscoliano con una rinforzata attenzione alla validità delle Grazie non solo perché legate ai fecondi motivi delle odi e di quelle sviluppo coerente e profondo, ma soprattutto perché riconosciute integralmente piene della viva umanità foscoliana, espressione di un Foscolo ancora originalmente poeta: «tutta l’umanità si sente in ogni punto, anche dove pare che domini l’incanto della bellezza e della voluttà». Se il Donadoni aveva già reagito al De Sanctis su questo punto fondamentale, al Croce si deve la piú sicura ammissione delle Grazie nel cerchio della grande poesia foscoliana, anche se essa venne motivata piú dalla costatata presenza di vita e di umanità nelle Grazie, che non da un esauriente esame delle loro particolari caratteristiche e dei loro motivi costruttivi: esame attuato molto piú tardi nell’articolo Intorno alle «Grazie»[125], che, riaffermando la vitalità e intima unità dei cosiddetti «frammenti» come liriche in sé sufficienti e non bisognose della falsa, esteriore unità delle «opere congegnate», ricollega piú decisamente il Croce a quella piú tarda discussione sulla natura delle Grazie, sulla loro unità o frammentarietà, a cui il suo insegnamento metodico generale aveva dato origine ancor piú che non le stesse pagine del saggio del ’22, le quali avevano comunque cosí bene assicurato alle Grazie l’attenzione degli studiosi, definitivamente liberati dalla grave ipoteca del giudizio negativo del De Sanctis.

D’altra parte l’influenza dell’estetica crociana si faceva direttamente, e piú rigidamente, sentire in un saggio del 1920[126], con il quale G. Citanna si era impegnato in una valutazione puramente «estetica» della poesia foscoliana, nell’esame della sua unità, della sua genesi intellettuale o lirica. Ed è significativo perciò che lo sforzo maggiore del Citanna, nella sua ricerca di una distinzione del valore poetico, si sia rivolto soprattutto alla valutazione e al riconoscimento della natura complessa dei Sepolcri, che la critica ottocentesca piú matura e il De Sanctis avevano accettato come capolavoro indiscutibile, opera tutta poetica ed unitaria proprio nel suo unico valore di sintesi dell’animo foscoliano e di alta espressione di un’epoca, di poesia personale tanto piú alta proprio per il suo valore civile e patriottico. Il Citanna reagiva invece alla preminenza del motivo politico-patriottico (donde la rabbiosa stroncatura del Cian, che univa alle ragioni del suo nazionalismo l’avversione degli epigoni del metodo storico per la nuova critica estetica[127]), favorendo anche in tal modo uno spostamento dell’acme poetica del carme dall’episodio delle tombe di Santa Croce a quello mitico finale: spostamento che verrà successivamente meglio giustificato e comunque accettato anche da quanti discussero invece l’impostazione e la soluzione del problema dell’unità dei Sepolcri, nei quali il Citanna istituiva un dualismo di motivi intellettuali e lirici, causato dal «compromesso» foscoliano tra la fede nella poetica illusione e il pessimismo di origine materialistica.

Non accettabile appare, specie nella sua impostazione troppo schematica, tale giustificazione di un dualismo nei Sepolcri, discutibile è spesso la identificazione e l’analisi di momenti poetici realizzati, eccessiva anche l’insistenza sulla impoeticità dei passaggi fra i vari «tempi» del carme, dove l’esigenza del compromesso logico farebbe sentire la sua piú pesante e prosastica presenza. Ma indubbiamente, pur nei suoi limiti di gusto e di ragionamento critico e nella stessa applicazione rigida e schematica del canone di «poesia e non poesia», questa interpretazione distintiva dei Sepolcri rappresenta la parte piú impegnativa e stimolante del saggio del Citanna, la sua maggiore offerta a quella fase della critica foscoliana. Piú importante, come proposta di un tema critico, come base di discussione nella problematica di scuola crociana[128], delle analisi delle odi e dei sonetti, piú importante anche del notevole tentativo di nuova lettura delle Grazie, che si incontrava però con una insufficiente apertura del gusto del critico, fermo ad un pericoloso paragone con la poesia dannunziana (accennato nel saggio ricordato di G. Rossi a proposito del pittoricismo foscoliano) e all’impressione di una poesia edonisticamente pittorica e plastica, di una sensualità raddolcita e rasserenata[129].

Se per le Grazie appariva necessaria una migliore attenzione alle loro precise caratteristiche poetiche e alla loro essenziale posizione di culmine della poetica e della poesia foscoliana (al di là della piú generale verifica crociana secondo cui in quelle continua ad esprimersi l’intera personalità del poeta) e si richiedeva una sensibilità piú acuta – che fu stimolata anche dalle esperienze poetiche contemporanee (piú in direzione della poesia «pura» e delle nuove esigenze di alto formalismo tipiche del gusto di larga derivazione rondistica che non nell’ambito delle esperienze di tipo dannunziano che pure indubbiamente avevano, a lor modo, sollecitato un nuovo, anche se inadeguato e rischioso interesse per le Grazie[130]) –, per i Sepolcri occorreva risalire al loro intimo accento unitario, ad una loro unità di atteggiamento fondamentale senza tornare ai giudizi romantici troppo basati sul primato dell’ispirazione patriottica e discutendo il nuovo problema posto dalla crociana distinzione di poesia e non poesia, e da una piú esigente nozione di lirica, rilevando i momenti di piú autentica e congeniale realtà poetica, attraverso i quali sarebbe stato possibile ricondursi ad una migliore interpretazione del mondo poetico e del valore del carme e della poesia foscoliana in generale.

Esigenze in gran parte avvertite da M. Fubini in quel suo saggio del ’28[131] che rimane tuttora l’ultima vera compiuta monografia critica del Foscolo[132], costituisce la base dell’ulteriore attività del maggiore foscolista contemporaneo e rappresenta complessivamente – malgrado certa sua giovanile immaturità e nei limiti di una problematica piú strettamente crociana, che pur si arricchiva di offerte del gusto contemporaneo accolte con molto equilibrio e cautela – un momento particolarmente importante di piú compiuta realizzazione e di approfondimento della interpretazione idealistica, un principio di revisione essenziale del problema critico della poesia e della personalità foscoliana piú sicuramente valutate nella ricchezza delle loro componenti e in quella fondamentale aspirazione del Foscolo ad una contemplazione lirica ed armoniosa del proprio complesso e drammatico mondo interiore che, usufruendo di alcune intuizioni precedenti, specie del Donadoni, il saggio fubiniano contrappone in maniera piú decisa alla immagine romantica di una personalità viva solo nella sua violenta passionalità.

In quel saggio, che partiva dalla volontà di studiare il Foscolo come poeta e nel suo tempo, senza cercarne i successivi legami con gli sviluppi del romanticismo e del Risorgimento (ricerca che spesso aveva originato le accuse al Foscolo di contraddizioni, varianti secondo l’immagine diversa dei movimenti storici di cui il poeta veniva considerato «precursore»), la poesia foscoliana veniva affrontata dopo un accurato accertamento della sua concreta e complessa umanità, e nell’energica affermazione della funzionalità rispetto ad essa del pensiero foscoliano, la cui feconda vitalità nella dialettica positiva instaurata nell’animo del poeta era ben realizzata nell’esame del valore delle «illusioni» e del senso sofferto della storia che provocano una viva dialettica nell’animo del poeta e lo stimolano a cercare l’espressione eterna e salvatrice, ma sempre storica e profondamente personale, della sua vita nell’opera poetica. Lo studio di questa appare cosí anzitutto interessante per la viva intuizione della complessità foscoliana e per la vigorosa individuazione del valore di integrazione e di svolgimento tra le immagini autobiografiche e poetiche foscoliane, tra Foscolo-Ortis e Foscolo-Didimo, fra «il disperato amante delle illusioni», il «mitografo» e «l’innografo» e «religioso vate dell’armonia». Studio che, se a volte implica la prevalenza di una linea piú esterna e rigida – e non priva di qualche indulgenza a surrogati psicologi e a riprese meno approfondite di passaggi desanctisiani – bisognosa di quegli scavi piú profondi ed attenti che il Fubini stesso ha in parte operato in alcuni suoi saggi successivi, costituisce comunque un momento essenziale nella critica foscoliana, corrispondente al bisogno di rilevare e spiegare motivi e opere che la critica precedente aveva ignorato o depresso, necessario alla giustificazione della poesia delle Grazie (reagendo già ad un possibile isolamento di queste) e all’illuminazione che dalla comprensione di queste viene su tutta la poesia foscoliana, sulla sua tendenza mitica, sulla sua ispirazione di «religione dell’armonia» già intuita dal Donadoni. Ed infatti, in forza di questa interpretazione della poesia foscoliana come «lirica riflessione» piuttosto che come «passione irruente», in faticoso, intimo progresso di affinamento artistico e di dominio interiore delle passioni, tutta l’attività foscoliana viene presentata e analizzata entro una nuova linea di svolgimento che tende ad assicurarne l’unità e la complessità.

Cosí (con l’utilizzazione di motivi desanctisiani, donadoniani, crociani), misurata la ricchezza esuberante e contraddittoria dell’Ortis, la sua violenza passionale e autobiografica, il critico insiste particolarmente sui miti poetici delle odi, sul prevalere di un maggior dominio sereno nei sonetti maggiori, in cui meglio il poeta avrebbe colto la differenza, tanto essenziale per lui, fra poesia e confessione aprendosi cosí la strada alla sua poesia piú grande, a quella sintesi superiore delle sue tendenze contrastanti che è costituita dai Sepolcri. E in questi, se viene accettata, nella discussione aperta dal Citanna, una duplicità di intonazione («poesia discorsiva e poesia appassionatamente fantastica»), la presenza di uno schema settecentesco di epistola, con legami logici e letterari piú che poetici (quasi «epigrafi nobilmente decorative»), il quale «offre lo spunto a una collana di liriche mirabili, che tendono ciascuna a stare per sé», si recupera poi una sostanziale unità di atteggiamento, di «spirito contemplatore» (sí che quelle liriche «pur si ricongiungono in una unità superiore»), con cui il Fubini reagisce alla tesi citanniana del «compromesso» e dell’insanabile dualismo e che, prevalendo trionfalmente nell’ultima parte del carme (meta e punto alto della poesia che vi è diventata «voce della comune coscienza degli uomini»[133]), anticipa in certo modo quello che sarà l’atteggiamento del poeta nelle Grazie. Nelle “liriche” delle Grazie si attua cosí l’aspirazione piú profonda e genuina del Foscolo, la tendenza piú vera della sua poesia, sí che i negatori di quelle «sembrano, con la loro condanna sommaria, fraintendere non le Grazie soltanto, ma tutta l’opera del Foscolo, giudicandola opera di passione irruente, anziché di lirica riflessione»[134].

Certo nell’esame delle Grazie si potrà osservare una relativa profondità di commento particolare[135] e una qualche attenuazione della forza di quella poesia in adeguazioni piú esterne di «chiarezza ed evidenza della rappresentazione», in un eccessivo rilievo della «armonia del giorno» a scapito forse delle forti venature elegiache di una poesia di cui pure è tanto giustamente affermata la profonda natura lirico-musicale contro le precedenti caratterizzazioni pittoriche e plastiche; e nelle analisi e nei giudizi sulle diverse opere foscoliane si potranno distinguere momenti piú felici da altri piú discutibili e meno maturi, come possono essere messe in discussione la definizione dei Sepolcri come «collana di liriche» e l’insistenza soverchia sulla logicità dei passaggi del carme. Ché si può in generale anche dire che il saggio fubiniano fu stimolato e condizionato, anche in certi suoi limiti, dalla particolare problematica di scuola crociana (unità e distinzione di poesia e non poesia). Ma, a parte il fatto che anche in quella direzione esso portava precisazioni e svolgimenti comunque importanti e originali, nel centro animatore di quel saggio, e nella ricchezza di nuove osservazioni e giudizi, operava una forte e valida coscienza della personalità foscoliana nel suo nucleo vitale e complesso e nella sua capacità di svolgimento poetico; e una attenzione generale a tutta l’attività dello scrittore dava nuovo valore a parti e toni dell’opera foscoliana meno precedentemente avvertiti o studiati fino allora in maniera unilaterale. Come avveniva per il Foscolo didimeo, che il Rabizzani aveva studiato nella versione sterniana[136], e che il Fubini per primo riporta nel vivo della personalità del poeta come momento essenziale all’epoca delle Grazie e al nuovo senso di dominio e di distacco dalla passione irruente del periodo ortisiano, e che insieme vede presente, come componente e anticipo di svolgimento e di arricchimento, già nell’opera giovanile che tutta ne risulta piú animata e dinamica.

O come avveniva per le versioni omeriche fino allora considerate soprattutto in esteriori paragoni con il Monti traduttore, e per la stessa valutazione delle idee estetiche e critiche meglio riferite a motivi e miti del poeta[137], o per la precisazione del raccordo fra la poesia e l’impegno politico e storico, il quale, proprio negli anni del centenario, veniva meglio chiarito, al di là delle vecchie polemiche risorgimentali e degli studi poco concludenti del periodo positivistico, da appositi studi di diverso valore: quelli del Solmi, del Morandi, dello Spadoni, nel ricco volume delle celebrazioni pavesi del centenario[138], quello, assai notevole, di U. Dorini sul pensiero del Machiavelli e la sua efficacia sul pensiero politico del Foscolo[139], le pagine di L. Salvatorelli, che storicizzano con singolare efficacia la posizione e l’originalità del Foscolo politico nel periodo napoleonico e della Restaurazione[140], e, in anni di poco successivi, l’ottima introduzione di L. Fassò ai foscoliani discorsi Della servitú dell’Italia[141].

6. Il problema critico delle «Grazie», del Foscolo didimeo, dell’«Ortis», negli studi foscoliani fra 1928 e 1957.

Dopo il saggio del Fubini, sull’avvio della problematica da quello instaurata soprattutto con la nuova attenzione ad opere e aspetti del Foscolo precedentemente meno considerati (e nel crescente interesse dei letterati per un Foscolo piú «moderno» e «segreto», criticamente tradotto anzitutto nelle esigenze della posizione stilistica derobertisiana[142]), la critica foscoliana si è rivolta particolarmente al Foscolo didimeo e soprattutto alle Grazie, vedendo nella soluzione del problema di queste la stessa soluzione del problema generale della poesia foscoliana, o discutendo tale impostazione come eccessiva e comunque cercando di prender sempre piú concreta coscienza di una poesia che la sensibilità contemporanea considera giustamente come proprio nuovo ed essenziale acquisto dopo l’incomprensione ottocentesca[143]. E si può dire che un po’ tutti gli studi critici apparsi dal centenario della morte del poeta alla fine della seconda guerra mondiale, anche quando si propongono il generale studio della poesia foscoliana e la ricostruzione della sua linea di svolgimento, hanno soprattutto di mira la soluzione del problema delle Grazie e in quella trovano il momento piú impegnativo e delicato della propria interpretazione.

Già D. Bulferetti in un articolo del centenario[144] vedeva nelle Grazie la piena attuazione della originalità foscoliana («purissima contemplazione estetica» in liriche compiute e in sé sufficienti), mentre uno studioso francese, A. Caraccio, nel suo saggio del 1934[145], puntava decisamente sulla assoluta superiorità delle Grazie, che, come «poème de l’âme», rivelerebbero appieno il fondo dell’animo foscoliano e la fecondità del suo classicismo romantico («classique par romantisme»). E tanta è la concordia della critica almeno nella volontà di comprendere l’altezza delle Grazie e di arricchire la propria conoscenza del mondo foscoliano con la considerazione positiva dell’atteggiamento didimeo, che potrebbe persino apparire arretrato ed estraneo allo svolgimento contemporaneo del problema foscoliano chi, come il Momigliano (malgrado successivi e significativi sforzi di una valutazione positiva e di una storicizzazione in sede di gusto), rimase fermo sostanzialmente ad una limitazione delle Grazie ed escluse l’apporto dell’autoritratto didimeo all’originale sviluppo della poesia foscoliana[146].

Il problema critico delle Grazie implicava però, al di là del riconoscimento del loro valore e della loro sollecitazione a una diversa prospettiva su tutta la poesia foscoliana (di cui acme non appaiono piú i Sepolcri quanto le Grazie), tutta una discussione (i cui precedenti sono costituiti dai già ricordati giudizi del Croce, del Citanna, del Bulferetti, del Fubini) sulla natura del poema incompiuto, sulla sua frammentarietà o unità, sull’importanza o meno del disegno poematico. La tendenza piú forte, e piú coerente al metodo crociano, sembrò trovare conclusione nel lavoro di M. Sterpa[147], che ribadiva l’unità compiuta e autonoma delle singole «liriche», a cui il disegno allegorico-didascalico sarebbe stato inutile impaccio e che esse avrebbero frustrato nella sua volontà di «poema» proprio con la loro compiutezza poetica, inconciliabile con la sovrapposizione non poetica di una struttura esterna e ragionativa. Ma ben presto a questa tesi si opposero altri studiosi che ne impugnarono la validità, o sostenendo la necessità dei legami e dello svolgimento poematico (naturalmente là dove questo era stato realizzato dal Foscolo in un’opera che, secondo alcuni, solo vicende biografiche gli avrebbero impedito di completare) per intendere nel loro vero valore le stesse cosiddette liriche, come fece Michele Barbi[148], o affermando almeno una unità di atmosfera, di «aura» e tono «grazieschi», come fece Francesco Flora.

Lo studio del Flora[149] non riguarda solo le Grazie, ma, nella complessa interpretazione della personalità foscoliana nelle sue successive espressioni poetiche e nella sua storica e feconda assimilazione originale di vivi elementi della cultura europea (e in tal senso sono interessanti molti rilievi del Flora e la volontà di un inquadramento del Foscolo nei problemi ideali del primo Ottocento non solo italiano), la linea centrale del saggio, puntando sulla «parola» poetica foscoliana, sulla «religione e consolazione della parola», tendeva naturalmente a ritrovare nelle Grazie il culmine della poesia foscoliana e addirittura il capolavoro della lirica dell’Ottocento. La precedente opera foscoliana, animata da una particolare filosofia del sentimento che si converte in una religione dell’arte e dell’armonia, è espressione sostanzialmente inadeguata, anche se intensa e vitale, di motivi lirici che acquistano sempre piú chiara coscienza della loro natura e della loro coerente tensione alla perfezione e che, dalla posizione troppo autobiografica dell’Ortis passando attraverso l’approfondimento lirico dei sonetti, delle odi e dei Sepolcri, dove civiltà e poesia si uniscono nella esaltazione dell’immortalità estetica, trovano definitiva sistemazione poetica solo nelle Grazie. E queste celebrano interamente la religione della parola nella sua complessità spirituale e formale e, in esse, l’armonia si realizza nel loro mondo sereno e in altissime armonizzazioni di immagini e «fin delle sillabe e lettere di un verso», in un’aura lirica, in un tono di «grazietà» presente come «orchestra» sotto la particolare «melodia» dei singoli passi e che è poi lo stesso respiro profondo dell’animo foscoliano, la voce della sua poesia pura che si espande «nel vivente paesaggio dell’universo», cosí animato e pieno rispetto a quello «cosí deserto» dei Sepolcri. Quel mondo poetico, sentito con tanta partecipazione, veniva poi studiato nelle sue speciali dimensioni con indicazioni e osservazioni efficaci e suggestive anche se inclinate ad un certo modernizzamento (fra dannunzianesimo piú musicale e raffinato e poetica evocativa e suggestiva) del sobrio gusto foscoliano e non certo corrette in tale direzione da alcuni riferimenti ad un classicismo piuttosto ornamentale e statico, che contribuiscono a rilevare eccessivamente il distacco apollineo e una certa beatitudine edonistica a scapito di quella vera disposizione di visione rasserenata ma echeggiante di profonde venature elegiache e malinconiche che è caratteristica delle Grazie[150].

Queste comunque, ripeto, erano per il Flora la meta alta della poesia foscoliana e su questo punto, malgrado le diverse giustificazioni e interpretazioni, largo è l’accordo della critica e specie di quella piú direttamente legata al gusto e alla poesia contemporanea.

Cosí anche Giuseppe De Robertis nel suo saggio del ’39[151] (notevole oltre tutto per la sua richiesta di una «strenua lettura stilistica» che verificasse piú minutamente e attentamente lo svolgimento della poesia foscoliana nel suo caratteristico procedimento «a strati»), pur mirando ad una ricostruzione di tutta la poesia del Foscolo basata sull’esame dell’Ortis come «matrice» di tutta la poesia successiva, e appoggiata all’individuazione della poetica foscoliana nella sua diversa alternanza o sintesi dei due termini del «passionato» e del «mirabile» (come il poeta stesso precisò nel Commento alla Chioma di Berenice[152]), faceva culminare tale sua linea di svolgimento nelle Grazie, dove egli vedeva attuata l’aspirazione piú profonda del poeta ad un’arcana armonia e a quel «calore di fiamma lontana» di cui parla il Foscolo didimeo (il Foscolo piú «moderno e segreto»). E le Grazie considerava come il capolavoro assoluto del Foscolo, come la sua poesia piú vera e piú vicina alle condizioni stesse della lirica piú moderna nelle sue esigenze di musica, di linguaggio allusivo ed evocativo[153].

Tuttavia queste altissime valutazioni delle Grazie, e una diffusa impressione entusiastica ed acritica di lettori meno provveduti, potevano apparire ad alcuni in qualche modo pericolose e suscettibili di discussione, sia per la conseguenza possibile di una depressione eccessiva del valore della precedente poesia foscoliana e soprattutto dei Sepolcri, sia per la giustificazione piú difficile dei passaggi fra questi e le Grazie, la cui interpretazione in termini troppo moderni e in equivalenze musicalistiche ed evocative avrebbe potuto anche implicare un misconoscimento della complessa umanità del poeta e dei suoi impegni storici, presenti anche nella sua ultima poesia, ben diversa sempre da una evasione di esteta o di letterato edonisticamente compiaciuto del proprio raffinato calcolo stilistico. Si possono cosí comprendere le contemporanee reazioni di Luigi Russo e di Cesare Federico Goffis che, portando notevoli chiarimenti al significato storico delle Grazie, tendono a equilibrarne meglio la posizione nell’intero svolgimento della poesia foscoliana rifiutando l’eccessivo stacco creatosi (piú in una opinione media di lettori che nei risultati dei veri saggi critici, che questa aveva esageratamente sviluppato) fra Grazie e Sepolcri e l’eccessivo giudizio di superiorità delle prime. Il saggio del Russo, Le «Grazie» e la critica contemporanea (svolto anche in una completa e sintetica interpretazione del Foscolo[154]), implicava un forte richiamo alla presenza dell’intera umanità foscoliana nelle Grazie (la cui poesia veniva definita «episodica», non «frammentaria») ed anzi persino di una speciale «politicità» in quella stessa creazione di un «iperuranio» apollineo che rappresenta un rifiuto, anche storicamente importante, della «rissa fraterna» e della forza illiberale in nome di una nozione superiore di umanità e di letteratura, il cui valore era particolarmente suggestivo per chi, come il Russo, avvertiva dolorosamente una singolare analogia fra quella situazione storica e gli anni della dittatura e della guerra fascista. Mentre il Goffis[155], cercando di valorizzare positivamente anche la struttura poematica, l’impegno allegorico delle Grazie, insisteva sulla continuità degli interessi politico-patriottici fra queste e i Sepolcri reagendo alla interpretazione esclusivamente musicale della poesia «pura» degli inni.

L’interessante libro del Goffis, in cui si può rilevare, pur nella presenza di tesi di valore centrale e nell’impegnativa interpretazione delle opere piú grandi, una effettiva maggiore capacità di indagine su particolari problemi (svolti poi dallo studioso in successivi contributi e discussioni), ci conduce a notare come gli studi piú recenti siano ancor piú nettamente caratterizzati da un prevalente impegno in ricerche precise e puntuali su particolari e importanti momenti e passaggi dello svolgimento del Foscolo, su aspetti della sua cultura, della sua formazione letteraria, del suo stile, su essenziali questioni di datazione delle opere minori, sul loro significato e sviluppo.

Se si esclude infatti il volume di R. Ramat[156], che tende a ricostruire con varia efficacia un itinerario ritmico foscoliano di pura natura idealistico-romantica, tutta l’attività di studi foscoliani nell’ultimo quindicennio (con anticipi presenti già negli anni precedenti) è volta a realizzare un approfondimento e arricchimento del problema critico in contributi particolari (di valore tanto maggiore quanto piú chiara è nel particolare la presenza di una idea critica centrale), convergenti in una generale volontà di prendere coscienza concreta della complessa natura dell’opera foscoliana, della sua elaborazione a strati e a spirale, del suo alto lavoro stilistico e della sua originale elaborazione di elementi letterari e culturali entro la difficile fase di passaggio fra illuminismo e romanticismo e nello speciale contatto con gli ideali neoclassici. Volontà che si appoggia anzitutto sulle preziose offerte della nuova filologia, particolarmente fruttuosa, dopo l’impulso impressole dal Barbi, nella edizione critica delle opere foscoliane[157], e che è venuta traducendosi sia nell’accertamento migliore della cultura foscoliana, sia nella minuta risoluzione di particolari di biografia e cronologia necessari a sostenere un migliore sviluppo della linea della personalità foscoliana[158], sia nel diretto esame di singole espressioni e di singoli momenti di questa nonché nel rilievo di quelle sue componenti piú sottili e segrete che già alcune proposte del De Robertis e il saggio del Fubini avevano precedentemente meglio considerato, stimolando fin da allora assaggi parziali che vennero piú tardi ripresi con una migliore coscienza della loro generale funzione e con piú precisa completezza di indagine. In tal direzione predomina l’interesse per il filone didimeo-sterniano, per la prosa didimea e per i complessi problemi della loro relazione con l’immagine completa del Foscolo e con la storia della sua anima, della sua poetica, della sua poesia, mentre fra le opere maggiori del Foscolo ci si è rivolti con nuova attenzione – e con animus critico piú congeniale a queste nuove esigenze – soprattutto all’Ortis, sia in se stesso sia nei confronti dello sviluppo successivo, specie nell’intricato e delicatissimo problema dei rapporti tra Foscolo-Jacopo e Foscolo-Didimo.

Per quel che riguarda piú precisamente il problema didimeo-sterniano, dopo lo studio ricordato del Rabizzani e quello assai notevole di Mario Marcazzan[159], debbono essere particolarmente considerati lo studio (con antologia di appoggio) di Claudio Varese[160], che finemente indaga sulla complementarità di Didimo e Jacopo nella vita interiore foscoliana, quelli dello stesso Varese e di L. Berti, rivolti direttamente alla traduzione del Viaggio sentimentale e ai rapporti fra linguaggio sterniano e linguaggio foscoliano[161], e, piú recentemente, le pagine del Fubini in quella introduzione al vol. V (Prose varie d’arte cit.) delle Opere foscoliane, che riprende e sistema i vari studi già dedicati dallo stesso Fubini all’indagine (e alla discussione con altri studiosi) del significato di Didimo Chierico, del Sesto tomo dell’io, della prosa didimea delle Lettere dall’Inghilterra, dell’attività foscoliana fra Ortis e Sepolcri[162]. Studi che, mentre corrispondono, con singolare equilibrio fra analisi e sintesi, alle esigenze di una piú precisa sistemazione e ricostruzione della linea foscoliana nei suoi passaggi piú aggrovigliati ed ardui, rappresentano la ripresa e il piú maturo sviluppo di una interpretazione già affermata nel saggio monografico del ’28. E la stessa duplice validità ha quella nuova lettura dell’Ortis[163], che attua con tanto nitido vigore il proposito fubiniano di meglio chiarire il valore di quell’opera nel suo passaggio da una prima redazione incompleta e piú giovanilmente preromantica e letteraria a quella del 1802 tanto piú organica, drammatica ed alfieriana, mentre essa collabora, con particolare impegno unitario e storico, con le nuove indagini del De Robertis e di altri studiosi sugli strati dell’Ortis, sul loro valore stilistico, sulla indicatività di quella prima opera per l’attività foscoliana successiva[164].

A questo punto ci si potrebbe conclusivamente domandare quali caratteri possa avere un successivo sviluppo della critica foscoliana e se esso possa implicare svolte decisive e forti riprese di nuove interpretazioni sintetiche e generali dopo la fase piú recente (e tuttora aperta) di ricerche e approfondimenti particolari. Certo il problema critico foscoliano ha trovato nello svolgimento della critica novecentesca formulazioni che appaiono molto spesso non facilmente spostabili, ma, a parte la naturale impossibilità di chiudere mai la strada a futuri rinnovamenti della critica e del gusto (sui quali incidono potentemente proprio quei nuovi fatti decisivi che son costituiti da nuovi atteggiamenti storici politici ed estetici e da nuove originali espressioni poetiche), pensiamo che gli stessi nuovi studi particolari[165] e il lavoro filologico in corso (si pensi soprattutto alle Grazie) dovranno certo stimolare ulteriore lavoro critico di analisi e sintesi e favorire anche una piú completa ricostruzione della poetica foscoliana[166] capace di realizzare, in una ricerca unitaria e dinamica (sulla base di una rinnovata discussione delle piú valide interpretazioni precedenti), i risultati di un piú minuto esame delle varie opere foscoliane e del loro complesso sviluppo e le esigenze di una collocazione storica integrale e storico-letteraria che sempre meglio assicuri l’originalità della poesia foscoliana pur nell’assiduo contatto del poeta con le correnti letterarie del suo tempo e con la tradizione poetica, la sua altezza lirica pure e proprio nell’impegno vivo e significativo dell’uomo nelle vicende della storia[167], negli svolgimenti spirituali e culturali della sua epoca inquieta e ricchissima[168].

7. Fortuna critica recente fino al bicentenario.

Dopo la pubblicazione, nel ’57, di questo mio saggio su Foscolo e la critica, mentre pur proseguiva l’operosità editoriale, specie con l’edizione nazionale delle opere foscoliane (già progettata dal Barbi nel 1927 e diretta dal Fubini da lungo tempo), accompagnate da introduzioni a volte particolarmente impegnative (cito per questo periodo quella di G. Barbarisi, Esperimenti di traduzione dell’Iliade[169], di G. Bezzola alle Tragedie e poesie minori[170] e soprattutto quelle di G. Gambarin alle Ultime lettere di Jacopo Ortis[171], alle Prose politiche e apologetiche (1817-1827)[172], agli Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808[173] – specie per quanto riguarda la sollecitante interpretazione politica del Commento alla Chioma di Berenice), ripresa poi, dopo la morte del Fubini, sotto la mia direzione nel 1977, con l’uscita di tre altri volumi[174] e l’apprestamento degli ultimi volumi della edizione, e mentre pur proseguiva l’attività di vari provati foscolisti con studi e saggi (sempre centrali quelli del Fubini[175], per non dire dei lavori dell’assiduo Goffis[176] o, per quanto mi riguarda il saggio sulla grande tragedia, l’Aiace[177]), è facile avvertire l’emergere di nuovi umori antifoscoliani e un crescente distacco della critica meno legata da tempo al problema foscoliano e del pubblico piú vasto (al di là della stanca routine scolastica ancor gravata dal peso di vecchi miti nazionalistici e retorici che tanto ha nuociuto alla presenza viva del Foscolo fra le nuove generazioni, o aggiornatasi al pur fuorviante mito puristico ed ermetico novecentesco). Veri dissensi e addirittura attacchi al Foscolo son quelli – tutti e due del ’59 – che provennero dalla lettura «militante»: il piú scolorito e limitato attacco di «gusto» da parte Giovanni Comisso che, in una rilettura dell’Ortis[178], ne denunciava la goffaggine delle situazioni, dei personaggi e dello stile, la loro «datazione» primottocentesca modernamente irrecuperabile; e l’attacco ben piú vasto, aggressivo e autorevole (specie sul côté snobistico-provinciale[179] e nelle sue propaggini di pubblico piú vasto e disinformato, specie attraverso la sua utilizzazione teatrale) di C.E. Gadda, Il Guerriero, l’Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo[180], certo lo scritto peggiore di Gadda, mescolanza di una lettura tutta scolastica di Foscolo, di «milanesismo» e «misoginismo» (l’antipatia per il detrattore di Milano-paneropoli e l’insaziabile amatore di donne-false vergini!) e comunque piú interessante per Gadda che per Foscolo e per la critica foscoliana, risolta in un improbabile professore foscoliano rimasto ad un livello anteriore anche a quello piú fanatico della critica idealistica e puristica e nella svenevole ammiratrice foscoliana (il pubblico femminile aborrito da Gadda).

Da tutt’altro versante, quello populistico-cattolico, e piú tardi, nel 1967 (l’anno della pubblicazione in volume del pamphlet gaddiano) Don Lorenzo Milani nella, pure interessantissima, Lettera a una professoressa attaccava il Foscolo per la sua «lingua morta» e «bugiarda» (puntando sull’altissimo luogo foscoliano: «Ma ove dorme il furor d’inclite gesta...») con la conclusione che il Foscolo «non amava i poveri. Non ha voluto far fatica per noi»[181] (anche se nella nota affiora un piú prudente «forse»: «forse quella poesia dice cose importanti», rivelabili solo con un metodo didascalico adeguato). In contatto con quest’ultimo attacco emergeva – per risolversi in una mescolanza ibrida snobistico-populistica antifoscoliana – una decurtata risultanza dei famosi giudizi gramsciani lievitata in corrispondenza con le avvisaglie e l’esplosione di quella «rivoluzione culturale» che fu il ’68 studentesco (portatore di autentici segni positivi, ma anche di una certa barbarie culturale basso-maoista male trascritta in una società di tardocapitalismo), che rifiutava la tradizione e il passato e in particolare un suo rappresentante tipico come il Foscolo, sempre alla luce della sua mistificazione scolastica e degli entusiasmi puristici ed ermetici. Mentre, sulla base gramsciana (meno usufruita all’epoca della sua riscoperta postbellica), si intrecciava una opposta tendenza rozzamente sociologica di tipo plechanoviano che dal seno di certa ortodossia comunista veniva profilandosi non solo nel caso del Foscolo (emerge soprattutto un accordo con la politica del «compromesso storico», nel caso di Leopardi e Manzoni intorno al 1974), ma che nel Foscolo vedeva solo la componente retorica e monumentale, l’estraneità non solo allo sviluppo del mito giacobino solo giovanilmente accettato, ma anche a quella ascesa della borghesia, vista nel rigido schema secondointernazionalista, come spina dorsale della storia setteottocentesca e solo degna di collaborazione da parte degli intellettuali e intellettuali-scrittori di quell’epoca, offrendo per Foscolo un appoggio ai rinnovati attacchi dei cattolici piú reazionari che hanno sempre aborrito il laicissimo Foscolo e che riuscivano cosí a combatterlo come reazionario rispetto non solo al Manzoni, ma al Tommaseo.

Gramsci, nei suoi scarsi appunti foscoliani dei Quaderni del carcere, aveva potuto intitolare un suo pezzo Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana che merita di essere citato integralmente: «I Sepolcri devono essere considerati come la maggiore “fonte” della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La “nazione” non è il popolo, o il passato che continua nel “popolo”, ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell’Ottocento quando si trattava di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventú, ma che è appunto “deformazione” e perché è diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico (l’ispirazione dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della cosiddetta poesia sepolcrale: è un’ispirazione “politica”, come egli stesso scrive nella lettera al Guillon)»[182].

E ancora, proprio nel confronto Foscolo-Manzoni (inserito in un pezzo intitolato significativamente Formazione e diffusione della nuova borghesia in Italia) scriveva: «Foscolo e Manzoni in un certo senso possono dare i tipi italiani. Il Foscolo è l’esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato (cfr. i Sepolcri, i Discorsi civili, ecc.), sua concezione è essenzialmente retorica (sebbene occorra osservare che nel tempo suo questa retorica avesse un’efficienza pratica attuale e quindi fosse “realistica”). Nel Manzoni troviamo spunti nuovi, piú strettamente borghesi, tecnicamente borghesi. Il Manzoni esalta il commercio e deprime la poesia (la retorica)...»[183]. Ora – in relazione a un certo sovrapporsi della discutibile poetica nazionalpopolare e dell’«intellettuale organico» sul giudizio del passato e del valore estetico – si dovrà osservare che la «strana deformazione» retorico-monumentale è in realtà piú frutto dell’uso che dei Sepolcri fu fatto dal nazionalismo otto-primonovecentesco (fino all’altare della Patria e al monumento del Milite ignoto!), che non del Foscolo, di cui (ignorando insieme le ragioni «giacobine» delle tombe, utili alle virtú popolari[184]) Gramsci, del resto, non manca di sottolineare la corrispondenza a un «fine politico» ed educativo necessario e «realistico» nella precisa situazione vissuta dal Foscolo (meglio confermato nel secondo brano di fronte al «poteva spiegarsi» piú dubbioso nel primo brano).

Nel periodo di cui ci occupiamo cadono le parti «storiche» e «realistiche» dal giudizio gramsciano e resta solo l’affermazione della retorica dei Sepolcri che, in prospettive fortemente appesantite, finiranno per divenire una agghiacciante e classicistica necropoli senza vita e senza ragioni vitali. Un ulteriore attacco al Foscolo e all’Ortis, come chiave del letterato italiano, provenne piú tardi da Moravia in un articolo del ’73[185] il quale – estrapolando una frase da un contesto ben diversamente complesso – prospetta il personaggio di Jacopo Ortis come il prototipo del letterato italiano «disperato passivo», paragonandolo insieme al Serra dell’Esame di coscienza e definendo Foscolo (confuso con il suo personaggio[186]) «meno intelligente», «il perfetto letterato piccolo-borghese, inguaribilmente retorico, patriottico perché socialmente frustrato». Come Moravia ripeté in uno show televisivo[187] ad introdurre uno sceneggiato di irresistibile, involontaria comicità e di vera goffaggine.

Cosí Foscolo, che tanta importanza ha avuto nella piú profonda formazione del nostro maggiore poeta contemporaneo, Montale, finiva col diventare un pretestuoso bersaglio, ben al di sotto di ogni possibile dissenso sulla vera forza e sui limiti di questa grande personalità poetica e di questo grande personaggio storico e intellettuale, che, se non è Leopardi e non ha la sua trascinante forza attuale, non manca certo di parlarci ancora in opposizione al coevo «poeta del consenso», il Monti, che da qualche parte viene opposto al Foscolo come il vero ed esemplare intellettuale organico ben auspicabile nel nostro presente.

Sta di fatto cosí che verso la fine degli anni sessanta la flessione della fortuna foscoliana «diffusa» diviene fortissima e certo la stessa vera e propria critica dell’ultimo ventennio non ha davvero privilegiato il problema foscoliano, nonché come tema suscitatore di peculiari entusiasmi, nemmeno come nucleo catalizzatore di rinnovati interessi storiografico-culturali. La polarizzazione degli interessi degli studiosi del nostro primo Ottocento fra le due figure-chiave di Manzoni e Leopardi sembra aver relegato in secondo piano la personalità foscoliana, forse anche perché difficilmente inseribile – con le sue spigolosità contraddittorie, con le sue oscillazioni irrisolte – in una schematizzazione storiografica promossa dal riferimento esemplare a due scelte certo divergenti e nettamente differenziate come quella leopardiana e quella manzoniana (il cui confronto fu impostato dal compianto C. Salinari e discusso da E. Sanguineti[188]).

Foscolo, troppo lontano dalla coerente e rigorosa forza contestativa del Leopardi «progressivo», ma certo non facilmente inquadrabile nei ranghi degli «intellettuali organici» alla borghesia avanzante, ha perduto rapidamente potere suggestivo e capacità stimolatrice nella produzione critica recente. Anche rispetto a nuove ridefinizioni della geografia ideologico-letteraria dell’Ottocento italiano come quella del Timpanaro[189], fondata sulla rivalutazione di un’area «classicistico-illuministica», il Foscolo stenta a trovare spazio significativo, risultando qualificato piú per l’anomalia della sua posizione che per una sua collocazione in positivo, piú per ciò che non è o non riesce ad essere che per ciò che è e intende essere: «Non classicismo freddo e accademico, certamente, ma nemmeno classicismo illuminista, malgrado le intenzioni didascaliche e allegorizzanti delle Grazie». «Lo sforzo da lui compiuto di superare l’astrattezza del libertarismo alfieriano nutrendolo di succhi machiavellici, hobbesiani e vichiani, non fu dal Foscolo stesso messo al servizio di un preciso orientamento liberale, e tanto meno democratico»[190].

Mentre persiste la carenza di ricerche monografiche o tendenzialmente tali[191], al di fuori di occasioni obbligate come le grandi storie letterarie, collane di classici, antologie ecc. (e a ciò può continuare a contribuire la perdurante mancanza di strumenti fondamentali come una biografia redatta con criteri moderni e storicamente affidabili, o come lo stesso trascinarsi lunghissimo del lavoro filologico su opere centrali come Le Grazie[192]), gli stessi spunti sintetici piú suggestivi e autorevoli che muovono verso tentativi di nuova definizione delle posizioni foscoliane nascono per antitesi o comunque per attrito da indagini centrate sulle altre due grandi figure. Ad esempio è in margine al suo centrale impegno di manzonista che nasce l’osservazione del Caretti sulla collocazione «eccentrica» di Foscolo «rispetto alla reale situazione italiana, agli effettivi problemi che essa poneva ai nostri scrittori»; e l’astrattezza del «gesto» foscoliano dell’esilio è misurata per contrasto sull’apprezzamento dell’umile «carità di patria» manzoniana[193].

Si capisce quindi perché l’occasione del capitolo foscoliano nella Storia della letteratura[194] non sia stata particolarmente sollecitante per il Caretti, il quale pure vi esplica tutte le sue doti di finezza e di nitida scrittura. I risultati piú originali sono tutti nel paragrafo dedicato alla produzione preortisiana (un settore privilegiato, come vedremo, dagli studi foscoliani piú recenti), nell’accorta descrizione di «un giovanile Foscolo dimidiato» fra il giudizioso apprendistato della Raccolta Naranzi (cautamente valorizzata come «lezione di sottile affinamento, di cautela e di controllo») e l’espansione sentimentale dell’epistolario, «di quelle prime caldissime e melanconicissime lettere». Nel suo complesso, il capitolo carettiano applica un modulo interpretativo di chiara derivazione derobertisiana, calibrando lungo la carriera poetica foscoliana il diverso atteggiarsi, raffrontarsi e rapportarsi di due fondamentali componenti, che il Caretti definisce (con un binomio reso celebre da tutt’altro autore) «persuasione e retorica», ma che non si differenziano dai termini foscoliani piú congruamente adoperati dal De Robertis, «passionato e mirabile». Ma in realtà questo modulo derobertisiano (che utilizza anche spunti fubiniani, specie nel giudizio sui sonetti) si inserisce in uno schema di giudizio di tipo desanctisiano, che colloca il culmine della parabola foscoliana nei Sepolcri, «ultima testimonianza organicamente compiuta della poesia militante del Foscolo», mentre a partire dal 1809, dopo la «breve reviviscenza» della Orazione inaugurale, prevarrebbero le ragioni del progressivo «isolamento personale» foscoliano, «verità» e «poesia» divorzierebbero definitivamente, e le Grazie attesterebbero la rinuncia all’azione sulla realtà.

Questo schema, che dal Caretti è presentato senza rigidezza, con consonanze per quanto riguarda i rapporti fra Grazie, Ricciarda e traduzione sterniana anche col mio saggio su Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13, viene maggiormente evidenziato in una breve e lucida monografia, di poco precedente, di Giorgio Luti[195]. Il motivo della «solitudine» di Foscolo, intesa come limite «privato» della sua avventura poetica e piú decisamente esplicitato dal Luti, il quale storicizzando l’oscillazione fra «mirabile» e «passionato» propone un’articolazione dell’arte foscoliana in tre stadi interdipendenti, «a seconda della diversa funzionalità degli stimoli romantici su una base saldamente ancorata a posizioni settecentesche». Alla prima breve fase decisamente romantica, nutrita di passione democratica (il Tieste, l’Ode a Bonaparte), aperta a tentativi di avanguardia europea (l’Ortis 1798 come esperimento di modernizzazione narrativa), succederebbe la fase del «compromesso», della riduzione «moderata» dell’elemento romantico sia in sede politica sia in sede letteraria. Si stabilisce cosí, secondo il Luti, il «pericoloso equilibrio della grande poesia foscoliana» (Sonetti, Odi, Sepolcri): un «fortunato equivoco» che cesserebbe con la presa di coscienza didimea e con Le Grazie, che testimoniano «una resa alle origini settecentesche del suo credo poetico, la rinunzia alla battaglia in nome della poesia consolatrice».

Tale tipo di impostazione conduce inevitabilmente ad arretrate sempre piú il limite della modernità (e della grandezza) foscoliana: se il Caretti scartava solo Le Grazie, per Luti l’isolamento rinunciatario emblematizzato dalla figura di Didimo nasce, appunto, con Didimo, nel 1804-1806 in riva alla Manica. Franco Ferrucci, autore di una discussa (e meritevole di una decisa opposizione[196]) liquidazione complessiva dei classici letterari italiani fra Sette e Ottocento[197], mentre esplicita ed estremizza il ritorno al giudizio desanctisiano sulle Grazie («Foscolo riprende la linea arcadica e settecentesca della galanteria versificata»), colloca esplicitamente subito dopo l’Ortis («il piú bel libro della sua generazione, e certamente il capolavoro del Foscolo») la soglia della sfioritura di una «eccezionale adolescenza poetica»[198]. Non dissimilmente Enzo Noè Girardi, in un saggio[199] significativamente improntato su argomentazioni rosminiane-tommaseiane, vede aprirsi dopo l’Ortis (con ancora notevoli concessioni al valore dei sonetti) una prospettiva di involuzione «reazionaria», culminante nella «frivola sensualità» delle Grazie. Infine Luigi Derla[200] (peraltro in una diversa sfumatura interpretativa, giacché la chiave di lettura del Foscolo maturo è estetistico-decadente, non classicistica, almeno nel senso settecentesco del termine) ingloba anche l’Ortis in una complessiva condanna dell’atteggiamento foscoliano di fronte alla contemporaneità, e delle conseguenti sue scelte di poetica: una «poetica della rassegnazione» intesa come rifugio in uno «spazio interiore, lontano dai conflitti del mondo reale», che nascerebbe precocissima a partire dal momento in cui Foscolo giovane rinuncia alle sue originali esigenze di creazione di valori «non solo nell’ordine estetico, ma in quello della prassi».

Si capisce dunque l’attuale intensificarsi dell’attenzione degli studiosi intorno al primo periodo dell’attività foscoliana, anche se gli interventi sono ovviamente di diverso livello ed orientamento. Sulla formazione veneziana[201] porta l’attenzione Carlo Dionisotti[202], richiamando soprattutto (e con minor attenzione alla politica e alla produzione foscoliana) le esperienze e gli incontri che l’ambiente letterario della Repubblica proponeva a Foscolo: Cesarotti innanzitutto (e non senza foscoliane renitenze a certi aspetti del magistero cesarottiano) e il suo entourage padovano, ma già prima Bertola, personalmente conosciuto in un breve soggiorno veneziano del poeta riminese, con la Teotochi Albrizzi e Ippolito Pindemonte, e poi Andrea Rubbi, Angelo Dalmistro, il Compagnoni. Nessun apporto allo studio di questo periodo foscoliano dà invece un farraginoso e raccogliticcio volumetto di Walfrido Del Villano[203]; mentre fra i contributi piú specifici relativi ad opere anteriori al 1802 si potrà richiamare il saggio di Pino Fasano[204] centrato sui due sonetti Quando la terra è d’ombre ricoverta e Te nudrice alle Muse (come presumibili reliquie della sconosciuta ma attestata edizione 1798 di sette sonetti) e in particolare sull’influenza precoce delle Rime alfieriane; nonché il mio studio sull’ode genovese del 1800[205], teso a reinserire la genesi di quella poesia entro la spirale di sviluppo della personalità foscoliana fra Ortis (1798) e Ortis (1802): ciò che consente di valutare l’uso sapiente e sottilmente ironico dell’iconografia erotico-mitica settecentesca, l’esaltazione vitalistica dell’«amabile bellezza», come risposta dialettica alla drammatica situazione storico-personale in cui nasce l’Ode – sottraendo cosí la stessa sia alle scolastiche letture realistico-psicologiche, sia all’eccessiva riduzione in chiave di fredda e raffinata regressione al Settecento (una «collana di cammei»).

Ma com’è ovvio l’opera foscoliana giovanile su cui piú si appunta l’attenzione dei critici continua ad essere l’Ortis. Oltre alle notazioni contenute nel saggio citato, il Derla aveva dedicato al romanzo foscoliano un precedente lavoro[206], che, mentre sottolineava il profondo significato storico dell’Ortis, come «rispecchiamento di una profonda crisi della coscienza europea», ne riduceva sostanzialmente la capacità innovatrice: la risposta foscoliana alla crisi è infatti giudicata come una «passiva» regressione istintuale che, risolvendosi in un rifiuto violento (il suicidio), si mostrerebbe incapace di acquisire una vera coscienza critica della situazione storica, e quindi di proporre un superamento dialettico della crisi. Dal punto di vista della pura analisi ideologica, lo studio che poco dopo pubblica A. Lepre[207] – in un percorso che va dagli scritti giornalistici del ’98 alle orazioni pavesi – interpreta in modo radicalmente opposto il gesto suicida di Jacopo: «un gesto di politica attiva» in quanto «il rifiuto di ogni possibilità di convivenza sociale viene... ad assumere un senso polemico, viene ad essere, in sostanza, nuovo impegno sociale». Ma entrambi gli studiosi sembrano in realtà eludere il vero problema critico del romanzo, che sta nel rapporto fra l’ideologia foscolo-ortisiana (e in realtà è poi necessario distinguere, ben al di là dell’autobiografismo del romanzo, fra ideologia del Foscolo 1802 e ideologia dei personaggio Jacopo) e la sua peculiare traduzione letteraria e artistica. Su questo problema si sofferma la mia introduzione a una recente edizione delle Ultime lettere[208], nel tentativo di mettere in luce, da un canto lo sdoppiamento autore-personaggio fra un intellettuale collaboratore critico del potere napoleonico e un intellettuale disperato e testimone estremo attraverso lo «scrivere», e comunque la natura estremamente complessa, densa di fertili contraddizioni, dell’ideologia ortisiana, dall’altro il dispiegarsi dei motivi ideologici, politici, esistenziali, nell’intenso ritmo drammatico-narrativo del libro. Che è ciò che consente (e spiega) l’enorme influenza dell’Ortis sull’Ottocento italiano, da Mazzini a Leopardi.

Agli aspetti piú schiettamente letterari dell’Ortis e in particolare alla genesi elaboratissima del romanzo e al peculiare modus operandi foscoliano nel rapporto con le innumerevoli fonti è dedicato un altro gruppo di interventi. Mentre Pino Fasano[209] smonta accuratamente la leggenda rossiana del «proto-Ortis» 1796, riconoscendo nel misterioso Laura, lettere del giovanile Piano di studi piuttosto un diverso e autonomo primo tentativo di romanzo, del tutto indipendente dalla storia di Jacopo, Mario Martelli ripropone[210] l’esistenza di uno «strato» dell’Ortis anteriore all’edizione bolognese 1798, ricavandola da una minuziosa analisi della continuazione sassoliana, che rivelerebbe (attraverso una fitta serie di riscontri tematici e stilistici) minimi interventi del Sassoli su un testo di caratteristiche tutte foscoliane[211]. Nuova attenzione desta frattanto il problema del rapporto con il Werther goethiano. Riccardo Massano[212] individua le influenze politico-culturali che poterono suggerire le tesi precedenti sull’argomento: quella «bilaterale» del «tempo del comparativismo positivistico, e della Triplice!», che concedeva qualcosa alla tesi foscoliana di una non diretta discendenza wertheriana dell’ispirazione dell’Ortis, ma contemporaneamente illuminava la diffusione vastissima in Europa del Werther, attraverso imitazioni, volgarizzamenti e adattamenti, e quella nazionalistica del Rossi, al tempo della prima guerra mondiale, che attraverso l’invenzione del proto-Ortis 1796 tende ad emarginare e scavalcare l’Ortis 1798, in cui piú palesi sono le derivazioni goethiane. L’innegabile influenza diretta del testo di Goethe sulla genesi del romanzo foscoliano attestata dal Massano è piú analiticamente documentata nel recente volume[213] di un giovane studioso, Giorgio Manacorda (il quale estende l’esame alle discendenze wertheriane in Leopardi), anche attraverso una maggiore attenzione al preciso testo della traduzione del Salom letta da Foscolo[214]. Il limite del lavoro del Manacorda sta in una palese incertezza metodologica, che lo fa muovere fra esigenze di certezze «marxiste» e ansia di recuperare l’ineffabile artistico (e romantico), per approdare ad un uso della psicanalisi che non sempre rispetta la pur enunciata necessità di distinguere l’indagine sui «motivi» testuali da quella sulle tendenze psicologiche degli autori. Per quanto riguarda specificamente l’Ortis, le notazioni del Manacorda circa il significato dell’esempio goethiano per il testo foscoliano soffrono della rigida delimitazione dell’analisi al testo delle 45 lettere bolognesi, e d’altra parte dell’indebita estensione alla «parte del Sassoli», che anche accettando la tesi del Martelli non può essere letta tout court come un testo foscoliano.

Non è abbondante il materiale critico recente sulle Poesie 1803 e sui Sepolcri. Nella linea complessivamente dominante in questo periodo di un’interpretazione dell’opera foscoliana come «fuga dalla storia» si inserisce la lettura di Forse perché della fatal quiete compiuta da Marco Cerruti[215]: il quale sa usare questa chiave di lettura in termini non svalutativi, senza semplificanti schematismi di fronte al fermento irrisolvibile delle contraddizioni foscoliane (la giusta perplessità fra la possibilità di orientare l’«indugio meditativo» del sonetto in termini «liminarmente religiosi» o, all’opposto, «in una prospettiva latamente lucreziana»), e con accorti raccordi con parallele esperienze (Wordsworth, Coleridge, Novalis) che anche uno studioso americano, K. Kroeber[216], suggerisce, misurando in termini europei la risposta al failure of revolutionary ideals. L’altro sonetto Né piú mai toccherò le sacre sponde sembra sollecitare particolarmente le attenzioni della metodologia strutturalistica, che si applica su di esso due volte: in modo assai artigianale e con palese modestia da parte di Alvaro Valentini[217], con piú sapiente disinvoltura per mano di Marcello Pagnini in un saggio[218] che ha anzi palesi quanto eccessive ambizioni di esemplarità metodologica. In entrambi i casi peraltro le acquisizioni critiche non sono in alcun modo innovative rispetto all’interpretazione corrente.

Per i Sepolcri, non si constata l’apparizione di nuove proposte interpretative complessive. In compenso non mancano contributi esegetici particolari e, anche qui, studi sulle fonti e sul loro uso nel carme. Di particolare interesse risultano fra questi gli studi dello Scotti[219] (sulla trattatistica sei-settecentesca intorno agli usi funebri, e in particolare sul De Sepulchris Hebraeorum dell’archeologo tedesco Johann Nicolai) e di Lionello Sozzi[220] (sulla pubblicistica francese intorno alle sepolture fra 1796 e 1804), aiuto notevole quest’ultimo alla comprensione della dichiarata «politicità» del carme.

Non contrasta infine con il dato precedentemente sottolineato, dell’accentrarsi dell’interesse intorno al Foscolo giovane, il fatto che rimanga invece intensa l’attività critica intorno alle Grazie. Molti interventi sembrano infatti soltanto trascinare senza particolari arricchimenti motivi già stanchi, esauriti nella ricca discussione svoltasi fra le due guerre. Cosí ad esempio il saggio di Vincenzo Presta[221] appare come il deterioramento tardivo di certe rischiose implicazioni dell’interpretazione del Flora: proponendo una lettura mistico-musicale dei singoli «frammenti lirici», che elude il pur apprezzabile dichiarato tentativo di sottrarre le Grazie ad ogni «formalismo estetico» e naufraga in una dilettantesca ricerca di equivalenti musicali («allegretti», «notturni», «piccole sinfonie»). Quest’ultimo fastidiosissimo vezzo ricorre anche nei numerosi interventi sulle Grazie di Saverio Orlando[222], il quale, nonostante l’encomiabile e appassionato impegno, portato anche sul piano filologico[223], sembra retrocedere anche piú del Presta, verso interpretazioni del tipo di quella dello Sterpa, rivendicando i valori dell’ispirazione spontanea presenti nelle «piccole liriche» fiorentine, successivamente sacrificati alle ambizioni didascalico-narrative del carme. E a motivi interpretativi stile «anni ’30» è pure legato lo studio di un allievo di De Robertis, Leone Piccioni[224]. Muovendo dall’asserzione di un radicale mutamento di poetica avvenuto all’altezza dell’Orazione pavese (lo stacco da una concezione «descrittiva» della poesia all’idea di una funzione di essa tutta «inventiva», legata alla teoria dell’«immaginazione» come capacità, propria dei «genii», di cogliere «la verità degli oggetti, e non solo le loro forme apparenti»), il Piccioni identifica negli anni delle Grazie una posizione di progressivo disimpegno della poesia foscoliana dall’attualità e dalla storia (in ciò non differendo, se non nel segno positivo annesso a tale affermazione, dalla maggior parte delle recenti interpretazioni). Dalla scelta «inventiva» scaturirebbe d’altra parte la necessità per il Foscolo di rivolgersi alla misura «breve», come l’unica che consenta la piena realizzazione di un ideale di lirica concisione[225]. Anche il Piccioni quindi approda all’esaltazione del «frammento» isolato, contrapposto alla struttura prosastica e raziocinante. Un contributo interessante anche se molto discutibile alla soluzione del rapporto fra episodi e architettura del carme viene forse da uno studio di Lidia Lonzi[226]. Viste sotto il segno di una poetica classicistico-illuministica (legata alla distinzione degli stili, e quindi a una scontata precostituzione dei contenuti del discorso poetico, ma d’altra parte valorizzante la capacità di «combinazione» dei motivi poetici come mezzo per toccare la sensibilità del lettore e quindi come strumento conoscitivo), Le Grazie appaiono alla Lonzi improntate «a un’unità che si basa su una particolare molteplicità dei motivi»: «gli episodi nascono all’interno di un discorso la cui struttura è da essi stessi costituita». L’analisi delle «transizioni esterne e interne» (dove si verifica, diversamente dall’ipotassi dei Sepolcri, una prevalente tendenza a forme paratattiche) agli episodi conferma l’impossibilità di scindere in antagonismo fra slancio lirico e freno intellettualistico uno sviluppo compositivo che si propone come procedimento di rapidissima successione di immagini.

Ma sulle Grazie l’intervento piú stimolante di questi ultimi anni è certamente quello del Masiello[227], il quale tenta uno scioglimento argomentato e lucidamente analitico della contraddizione disimpegno-politicità che dopo l’intervento del Russo ha condizionato il problema critico del carme. La chiave (adorniana) di questo scioglimento sta nell’interpretazione dell’apparente «evasività» delle Grazie come risposta dialettica (e contestativa) all’esperienza storico-politica vissuta, «rispetto alla quale essa si istituisce come misura di giudizio e risentita alternativa». Tale tesi è svolta dal Masiello con indubbio acume, attraverso una convincente ricostruzione della genesi delle Grazie che valorizza particolarmente la lucida demistificazione delle impalcature ideologiche borghesi condotta da Foscolo nell’Orazione sulla giustizia, e la conseguente affermazione di valori alternativi (la «compassione» e il «pudore») che già sottendono l’ispirazione dell’Ajace (interpretato, in accordo con la mia Lettura, come «antecedente piú immediato» delle Grazie) e promuovono l’esperienza didimea, intesa come «processo di estraniazione dalla irredimibilità del reale». Ciò non toglie che sia stato o sia possibile muovere al saggio del Masiello ragionevoli obiezioni circa certo schematismo che sembra forzare in direzione evasiva (e sia pure di un’evasività che riconnetta dialetticamente alla storia) anche elementi che appaiono dotati in realtà di una loro diretta, non solo «oggettiva» politicità (come la dottrina dell’armonia, la cui funzione, piú che «straniante» come appare al Masiello, è immanente ai «deliri mortali», e tesa a ricostituire una coraggiosa e consapevole misura di vita); mentre non convince completamente (anche alla luce di certe sfumature delle stesse Grazie: Pallade protegge la «guerra giusta») l’eccessiva riduzione pacifista dell’ideologia foscoliana[228].

È intorno all’approssimarsi, alla scadenza e occasione sollecitante del bicentenario della nascita del Foscolo, 1978, che si assiste ad una maggiore ripresa dell’attività critica foscoliana (di fronte al permanere ed emergere involgarito di umori antifoscoliani ben presenti nei giornali e settimanali dell’epoca, che colgono l’occasione del bicentenario per un rigurgito accresciuto di insigni sciocchezze ridicolizzanti questo aborrito genio della tradizione «nazionalprovinciale»[229]) contrassegnata prima, e intorno agli importanti convegni (Roma, Venezia, Milano, Firenze) promossi da un Comitato nazionale da me presieduto (e con la presidenza onoraria di Eugenio Montale) che si rivelano come l’asse portante di una cresciuta alacrità di indagini e nuovi studi e, addirittura, di una nuova prospettiva critica su Foscolo liberata sia dalle ipoteche di eredità risorgimentali, sia da quelle delle interpretazioni puristiche, idealistiche, ermetiche, mentre si faceva luce (in forme a volte ben sollecitanti e complesse, a volte in forme massicce e rischiose di perdere la specificità poetica del Foscolo, lo spessore storico della sua stessa poesia appiattendo lo scrittore sull’intellettuale tout court) la tendenza a cogliere la complessità foscoliana nelle forme dell’intellettuale-scrittore, meglio atte a rendere la storica connessione del Foscolo con la storia del suo tempo e con la stessa storia successiva. Cosí, in mezzo a studi che in vario modo riavvicinavano la piú trascurata zona sepolcriana (come il volumetto di G. Getto, La formazione dei «Sepolcri»[230], utile in sede di sensibile ricerca e riepilogo della complessa cultura confluita nei Sepolcri, ma criticamente meno impegnativo e viziato dalla tendenza a proiettare i «Sepolcri» in direzione religiosa, laica sí ma percorsa da un’impropria sensibilizzazione in direzione trascendente, o come il massiccio volume di Oreste Macrí, Semantica e metrica dei Sepolcri[231], che cerca di individuare il significato del carme in una prospettiva vichiana di consapevolezza del passaggio dalla natura alla storia emergente dalla fondamentale contraddittorietà dello spirito foscoliano e sottopone i Sepolcri ad un analitico esame strutturale e metrico appoggiato alla tesi generale che l’andamento metrico si identifica con «il principio poetico prelinguistico, organizzatore e ordinatore della verbalizzazione testuale») mi sembra molto rilevante o addirittura centrale l’istanza, fortemente presente nelle stesse relazioni e comunicazioni dei convegni foscoliani, di una storicizzazione piú intera e concreta della figura foscoliana e del suo ruolo storico di intellettuale e intellettuale-scrittore, che sostiene, variamente calibrato (e certo con un raccordo alle ricordate istanze del Badaloni e di storici come Lepre e Capra), i saggi e gli interventi nei convegni di B.M. Frabotta[232], di R. Cardini[233], di G. Barbarisi, di G. Bezzola[234], di V. Masiello, di M. Cerruti, e, con maggiore attenzione al modo di lavoro del Foscolo, gli studi di G. Nicoletti, Il metodo dell’«Ortis» e altri studi foscoliani[235], nonché la sua bene impostata introduzione ad una edizione della importantissima Lettera apologetica[236] o, in chiave modernamente biografica, la prefazione ad una scelta delle lettere foscoliane, Autobiografia di uno scrittore[237] di C. Varese; mentre nei convegni spiccano, per solidità e novità, l’ampio studio di M. Vitale sulla lingua foscoliana[238] e, per novità di ricerca o di scoperta filologica, il recupero di una giovanile tragedia foscoliana, l’Edippo, nello studio e pubblicazione di un inedito, attribuito appunto al Foscolo con argomentazione convincente, da parte di M. Scotti[239]; o le proposte di un metodo per una nuova e ben auspicabile biografia foscoliana di P. Fasano[240].

Ma nell’impossibilità (in attesa della comparsa degli Atti dei convegni foscoliani nazionali e di altri convegni locali[241]) di render conto della vasta messe di studi del bicentenario e delle linee predominanti (come quella prima indicata) o di linee particolari e spesso fuorvianti, come quella di un’indagine psicanalitica, del resto non nuova[242], o viceversa come quella persistente di esami preziosistici e figurativi delle Grazie (in netta opposizione ad ogni immagine storica del poema) ritrovabili particolarmente nell’intervento, al convegno veneziano, pur cosí raffinato, di M. Praz, sarà non immodesto da parte mia concludere, in maniera del tutto provvisoria, riferendomi al mio discorso inaugurale del 17 ottobre 1978 all’Accademia dei Lincei, con il titolo occasionale, ma pur significativo, Foscolo oggi: proposta di un’interpretazione storico-critica[243] che intendeva non solo fare il punto sulla presenza attuale del Foscolo nella critica e nella letteratura e cultura di questi anni, ma proporre un’interpretazione del Foscolo molto al di là di quella idealistica e puristica, un’interpretazione piú integralmente storica imperniata nella mia nozione di poetica nelle sue implicazioni culturali, socio-politiche, letterarie e sul particolare modo di azione pratico, intellettuale, poetico del Foscolo nel suo intervento nella storia, nella cultura, nella letteratura, che dalla lucida e pessimistica comprensione della realtà (fino al paradosso del «cosí è, cosí deve essere») trae impulso ad un incessante, e storicamente commisurato intervento per allargarne i limiti e gli spazi riprendendo e superando i modi contestativi dell’Alfieri e precedendo il pessimismo energetico leopardiano in una linea della nostra cultura e letteratura che si pone come alternativa alle tendenze moderate e cattolico-spiritualistiche che saranno espresse soprattutto dal Manzoni.

Sulla via di una simile proposta penso che si possano realizzare e far valere molte delle istanze emerse nei convegni foscoliani in una direzione piú centrale, unificante e articolata che ovvii agli opposti pericoli della astorica valutazione formalistica e neoplatonica (la poesia è «altra» rispetto al suo autore e alla storia) e dell’appiattimento delle qualità peculiari della forza moltiplicatrice della poesia nell’interpretazione del semplice intellettuale e dei modi del suo pensiero e della sua posizione culturale e politica. Ma tale prospettiva è certo anzitutto mia e non pretende di prefigurare i modi concreti in cui la personalità e l’opera del Foscolo potranno essere recepite e interpretate in quella che appare certo comunque una promettente ripresa della sua vita nella critica e nel lavoro letterario e culturale in continuo sviluppo.


1 Anche se appartengono all’aneddotica, i versi ispirati dal giovane Foscolo vate e tribuno concorrono a darci un primo ritratto preromantico del Foscolo, uomo e poeta di tempi nuovi, coronato dall’alone del Tieste e delle Odi apocalittiche e turbate del «conio dell’autore» (per usare un’espressione del Piano di studi), la cui eco risuona in componimenti encomiastici quali il sonetto di O. Samueli e l’ode di F. Vaini nell’«Anno poetico» del 1797.

2 I. Teotochi Albrizzi, Ritratti, Brescia 1807 (cito dall’ed. a cura di T. Bozza, Roma 1946, pp. 37-38). Su questi ritratti della Teotochi Albrizzi si veda il mio saggio nel vol. Critici e poeti. Dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, 19673.

3 Sulle polemiche foscoliane e sui giudizi passionali dei contemporanei si trovano notizie abbondanti, ma non organizzate criticamente, nel volume di M. Naselli, La fortuna del Foscolo nell’Ottocento, Genova 1923 (vedi anche G. Surra, Della varia fama di U. Foscolo, Novara 1907). Il quadro piú accurato delle polemiche provocate dai Sepolcri, dall’Orazione inaugurale e soprattutto dall’articolo foscoliano sull’Odissea rimane ancora quello tracciato da G.A. Martinetti, Delle guerre letterarie contro U. Foscolo, Torino 1880 (il Martinetti dette altri contributi allo studio della «eunucomachia» traducendo e presentando l’Ipercalisse, Saluzzo 1884, e pubblicando e illustrando lettere dell’Arici e del Lampredi al Monti nel «Giornale Storico della letteratura italiana», XXIX [1897]). Si veda anche, per la polemica Foscolo-Lampredi, il saggio di A. Vallone, in Dal «Caffè» al «Conciliatore», Lucca 1953.

4 Per il Lampredi, ad esempio, il Foscolo era nientemeno che il corifeo del romanticismo nella sua «parte meno sana» (Lettera apologetica, Napoli 1831, p. 9).

5 Lettera del 7 maggio 1803 (in Epistolario di U. Foscolo, Ed. Naz., a cura di P. Carli, I, Firenze 1949, p. 180). Si veda anche la lettera dell’11 dicembre 1802 (p. 167) e quella al Barbieri (M. Cesarotti, Opere, Pisa 1813, XXXIX, p. 4) in cui si precisa anche meglio l’incontro di ammirazione e riprovazione: «Io mi guarderò bene dal fartelo leggere (l’Ortis); perché è fatto per attaccare una malattia d’atrabile sentimentale da terminare nel tragico. Io lo ammiro e lo compiango. Ma parlando solo dell’opera, ella è tale che farebbe il piú grande entusiasmo se si credesse d’un oltremontano. Ella ricorda Werther, ma può farlo anche dimenticare». Sul valore di tali giudizi cesarottiani nei riguardi del preromanticismo del traduttore dell’Ossian e della novità rappresentata dal Foscolo si veda il mio Preromanticismo italiano, Napoli 1948, p. 252, ora Bari 1974, p. 210. Nella lettera del 7 maggio 1803 sopracitata il Cesarotti mostrava anche la sua incomprensione per il caratteristico respiro ritmico della poesia foscoliana rimproverando nei sonetti maggiori l’uso dell’«arcatura» specie fra quartine e terzine perché discordante dalla «bella armonia», dalla «aggiustata disposizione delle parti».

6 Anche il Pindemonte, in una lettera al Bettinelli del 18 dicembre 1802 (in G. Bosco Guillet, Il Pindemonte attraverso il carteggio di Verona, Torino 1955, p. 42), mentre considerava «buono lo stile» e trovava nell’Ortis «gran forza cosí di sentire come di pensare», criticava il romanzo («se cosí vogliam chiamarlo») perché «mancante d’azione».

7 Lettera al Foscolo del 17 giugno 1807 (Ep., II, Firenze 1952, pp. 227-228). Il carattere esteriore della critica bettinelliana è comprovato da alcuni appunti sui Sepolcri inviati all’Arrivabene (ibid., pp. 227-228 nota): «È forse il sonno ecc.: l’interrogazione è tutta in aria né si sa chi interroghi e chi risponda, e par che l’ombra dei cipressi e l’urne sian malgradite dal poeta, mentre consolano tutti gli altri, e quel confortate di pianto è pur in aria ecc.» (Cfr. B. Soldati, I «Sepolcri» giudicati dal Bettinelli e dal Monti, Perugia 1911; D. Bianchini, Osservazioni dell’abate Bettinelli sui «Sepolcri», in «Baretti», 1874).

8 La celebre definizione si trova in una nota alla lettera del 1811 al Monti (Per una canzone del conte G. Marchetti), in cui si osserva con amarezza che al Foscolo «rimane anch’oggi chi per pochi versi facendolo poeta, e per non buoni versi gran poeta, ammiri il fumoso enigma dei suoi Sepolcri» (P. Giordani, Opere, a cura di A. Gussalli, Milano 1856, IX – I degli Scritti inediti e postumi, p. 111 nota). Ancora nel 1831, in una lettera al Papadopoli, il Giordani ribadiva cosí la sua passionale incomprensione: «Non ho mai stimato il Foscolo, pessimo di cuore, mediocre assai d’ingegno, men che mediocre di dottrina, cattivo assai di gusto, gran ciarlatano. Non ho mai capito come tanti ne abbiano fatto un idolo» (Opere cit., VI – I dell’Ep., p. 115). Una riprova della penosa incomprensione del linguaggio poetico foscoliano, comune a una gran parte dei letterati contemporanei, è la condanna giordaniana delle «urne confortate di pianto»: perché «non s’intenderà mai come le arche possano sentire allegrezza o dolore e quindi ricevere conforto» (Opere, XII, p. 32).

9 La stessa epistola del Pindemonte in risposta ai Sepolcri del Foscolo è valutabile anzitutto nella opposizione alle conclusioni materialistiche foscoliane circa l’immortalità dell’anima. E cosí si dica per l’epistola del Torti che, a ben vedere, imposta (in clima cosí affettuoso ed equilibrato) la polemica antifoscoliana dei cattolici e spiritualisti romantici che si svolgerà poi piú chiaramente in seguito, esaltando, in accordo col Pindemonte e in dissenso col Foscolo, «il pensier della seconda vita» e affermando – in implicito contrasto con il Foscolo – la sorte dell’anima immortale che, mentre «il frale / che la circonda se ne va sotterra», rivola «dell’Eterno in grembo» (Sui «Sepolcri» di U. Foscolo, Lucca 1844, pp. 126 e 119, vv. 453 e 265-266). Del resto, già il Guillon, nel suo articolo, aveva insieme accusato i Sepolcri di pericolosità sociale e di incredulità religiosa («selvaggia misantropia» e «speranza della futura resurrezione, della quale il signor Foscolo non dice cosa alcuna», in U. Foscolo, Opere, Ed. Naz., VI, Firenze 1972, pp. 506-507).

10 All’«ermetismo» foscoliano, rimproverato nell’epistola («perché talor con la febea favella / sí ti nascondi, ch’io ti cerco invano?»), erano forse allusione anche i precetti ironici del sermone pindemontiano In lode della oscurità nella poesia («Un grave peccato / è in te, tutto s’intende: parte / non v’è alcun, cui quella intorno vada / caligin sacra, che sí grande acquista / ai versi incomprensibili virtude!»). Quanto all’accusa di immagini e argomenti troppo lontani nel tempo («Antica l’arte / onde vibri il tuo stral, ma non antico / sia l’oggetto in cui miri»), notava il Leopardi nello Zibaldone (10 febbraio 1829): «Tutti, cominciando dal Pindemonte nella sua Epistola, hanno biasimato l’introduzione di Ettore e delle cose troiane nel carme dei Sepolcri, e tutti leggono quell’episodio con grande interesse, e segretamente vi provano un vero piacere. Certo, quell’argomento è rancido, ma appunto perch’egli è rancido, perché la nostra acquaintance con quei personaggi data dalla nostra fanciullezza, essi c’interessano sommamente, c’interessano in modo che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, produrre altrettanto effetto». Che era poi un modo molto romantico e leopardiano di giustificare questo aspetto del classicismo foscoliano. Le critiche del Pindemonte non tolgono però che quello spirito fine ed aperto avvertisse l’originalità del Foscolo e sapesse anche rendere con parole sensibili la sua ammirazione per una poesia che realizzava tanto superiormente certe sue aspirazioni inappagate: «Ove trovaste quella malinconia sublime, quelle immagini, que’ suoni, quel misto di soave e di forte, e quell’ira? È una cosa tutta vostra, che star vuole da sé e che non si può a verun’altra paragonare» (lettera del 15 aprile 1807, Ep., II, p. 191).

11 «Giornale della Società d’Incoraggiamento di Scienze e Arti», 1809.

12 «Giornale Italiano», 4 dicembre 1807.

13 Il paragone fra i Sepolcri del Foscolo e quelli del Pindemonte campeggia a lungo sino a piú tardi paralleli come quello di A. Mauri (discorso preliminare ad una ed. dei Sepolcri, Milano 1843). Anche il De Sanctis nelle sue prime lezioni napoletane riprenderà quel paragone tradizionale, ma se ne servirà per distinguere, in maniera piuttosto vaga, una posizione laica e una posizione cattolica nella letteratura di primo Ottocento, quasi anticipo del contrasto Leopardi-Manzoni (Teoria e storia della letteratura, a cura di B. Croce, Bari 1926, I, pp. 161-162).

14 Il nome del Foscolo non ricorre quasi mai nelle polemiche dal 1816 in poi (solo il classicista Anelli lo ricorda nelle Cronache di Pindo come «focoso ingegno e indocil mente» e il Borsieri ricorda di sfuggita l’Ortis) e naturalmente si dovrà spiegare in parte tale silenzio anche con ragioni di opportunità politica (specie nel Lombardo-Veneto): la piú viva attenzione all’opera e alla personalità foscoliana nasce anche perciò fra gli esuli. (Si veda, ad esempio, il necrologio del Foscolo Notice sur U. Foscolo, di F.S. Salfi, in «Revue Encyclopédique», XXXVI, pp. 30-31).

15 Impossibile è qui tracciare una storia di questo distacco e dei piú rari casi di fedeltà (si ricordi almeno quello di Camillo Ugoni), cosí come esula dalle precise linee di questo profilo della storia critica lo studio – molto interessante per la incidenza della poesia foscoliana nella letteratura del primo Ottocento – del distacco dei romantici dall’applicazione di moduli foscoliani nelle loro opere poetiche. Si pensi al caso del Berchet che, dopo un prevalente foscolismo affermatosi, entro l’iniziale scuola pariniana, in componimenti giovanili come i Funerali, Amore, i Frammenti di un poemetto sul lago di Como, A Felice Belletti, si allontanò decisamente dall’influenza foscoliana quando elaborò la sua poetica romantica e si volse alla ricerca di un’efficacia popolare e moderna. Per non dire del Manzoni in cui del resto gli elementi foscoliani delle liriche giovanili sono spesso difficilmente precisabili nel vasto riecheggiamento montiano-pariniano. Diversa è la posizione del Leopardi che guardò particolarmente all’esempio foscoliano proprio nella sua piena maturità quando nel 1828 pensava persino di scrivere «carmi lirici del genere dei Sepolcri» (Disegni letterari, XII, in Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze 1969, 19722, I, p. 372): né mancano echi di immagini e versi foscoliani nella Ginestra (vv. 280 e ss.). Tutti i rapporti Foscolo-Leopardi (basati sulla forte presenza dell’Ortis nella sua formazione ideale, di cui tanto si è occupata la critica leopardiana, e sulla linea di un particolare romanticismo Alfieri-Foscolo-Leopardi) richiederebbero lungo e complesso discorso.

16 Si veda in proposito la palinodia di G.B. Niccolini, in A. Vannucci, Ricordi della vita e delle opere di G.B. Niccolini, Firenze 1866, I, p. 109.

17 Vedi «Antologia», marzo 1825, agosto 1829. Successivamente il Montani biasimò nell’«Antologia» la pubblicazione delle poesie giovanili rifiutate dal Foscolo (edite a Lugano nel 1831) che gli sembrava nuocere alla fama già tanto discussa del poeta. In realtà, negli anni della polemica risorgimentale, quella pubblicazione serví al Tommaseo per trovare ulteriori documenti della volubilità e incoerenza del Foscolo (per la presenza di accenti religiosi poi contraddetti dalla sua opera successiva) e solo nella posizione piú equilibrata del Carrer fu utile base per lo studio della prima formazione letteraria del poeta, dei primi caratteri della sua natura poetica.

18 E riflessi di posizioni foscoliane si possono trovare nel cap. III del trattato Del bello e del sublime di I. Martignoni (Milano 1810), che cita i Sepolcri come esempio di moderna realizzazione poetica del «sublime».

19 Lettera al Guillon, in Opere, Ed. Naz., VI, pp. 512-513.

20 In Opere, vol. XI. Saggio steso in inglese dallo Hobhouse, ma certamente ripreso da pagine foscoliane (vedi in proposito il vol. di É.R. Vincent, Byron, Hobhouse and Foscolo, Cambridge 1949).

21 Il libro del Pecchio venne ripubblicato, con introduzione e note, da P. Tommasini Mattiucci a Città di Castello, nel 1915.

22 V. sulle diverse reazioni dell’ambiente inglese F. Viglione, U. Foscolo in Inghilterra, Catania 1910; Vincent, Byron, Hobhouse and Foscolo cit.; Id., U. Foscolo: An Italian in Regency England, Cambridge 1953 (trad. it. U. Foscolo fra gli inglesi, Firenze 1954), e cfr. particolarmente l’aspro giudizio di W. Scott, The Journal, Edinburgh 1890, I, p. 14.

23 V. ad esempio op. cit., pp. 194-195 e 254. Quanto ad una valutazione estetica dell’opera foscoliana ben poco ci dice l’ultimo capitolo con i suoi giudizi sul Foscolo scrittore, ché il debole gusto del Pecchio era oltretutto velato, nei confronti della poesia foscoliana, da un facile pregiudizio anticlassicistico e antimitologico, da uno snobistico amore per la poesia «settentrionale» e da una assoluta incomprensione delle alte esigenze di stile del Foscolo che egli scambiava con vuoto calligrafismo classicheggiante e con rifiuto dell’originalità (v. p. 188). Si potrà semmai calcolare positivamente l’accenno, nel paragone con l’Alfieri, alla maggior ricchezza del linguaggio foscoliano che «seppe riunire alla forza e alla concisione la flessibilità, la pastosità, lo splendore» e introdurre «nella pittura il paesaggio» (p. 195).

24 Della vita e delle opere di U. Foscolo, Firenze 1849 (ma scritto in esilio nel 1839).

25 «Or tale è il piano dell’intero lavoro del Foscolo, in cui par che l’elemento civile formi tutta la sostanza poetica e il vero fine dell’autore» (cito dalla 2a ed., Bologna 1881, p. 92). Nell’esame dell’Ortis notevole è la giustificazione, in chiave psicologico-veristica di tipo romantico, dello stile come «fedele immagine dell’indole del protagonista; e quindi le colpe apposte da’ critici comuni sono il piú grande elogio dacché l’ubbidienza a’ precetti dell’arte, lo splendore e la serenità dello stile ove l’anima è torbida, irrequieta e convulsa, sarebbero difetti non che gravi ma imperdonabili» (op. cit., pp. 51-52). Notevole è anche la volenterosa attenzione alle traduzioni omerica e sterniana (e per quelle omeriche il Gemelli tenta un paragone minuto con il testo greco e la versione del Monti) che però sono ammirate da lui solo come traduzioni eccellenti, «capaci di far disparire del tutto il traduttore» (p. 55).

26 Per la storia delle vicende fortunose di quella biografia foscoliana che la Quirina Mocenni Magiotti attese invano dal De Tipaldo e poi dal Mazzini, si veda ora il recente articolo di G. Gambarin, Una disgrazia postuma del Foscolo, in «Convivium», marzo-aprile 1954, ora in Saggi foscoliani, Roma 1978.

27 «Con l’intendimento di alternare ad ogni periodo della vita del Foscolo il quadro delle vicende italiane in quei tempi di libertà piú sentita e presentita che intesa, e che l’essere libertà forestiera soffocò» (Lettere inedite di G. Mazzini ad alcuni dei suoi compagni di esilio, a cura di L. Ordoño de Rosales, Torino 1898, p. 190).

28 Prefazione agli Scritti politici inediti di U. Foscolo, Lugano 1844 (poi in G. Mazzini, Scritti editi e inediti, XXIX, Imola 1919). La prima espressione dell’atteggiamento mazziniano nei riguardi del Foscolo si trova nello scritto del ’29, Orazione di U. Foscolo a Bonaparte (in Scritti editi e inediti cit., I, 1906) che esalta il Foscolo come l’uomo «che riconsacrò tra noi coll’altezza dell’anima e dell’ingegno suo l’uffizio di Letterato». Nel saggio del 1837 Moto letterario in Italia (in Scritti editi e inediti cit., VIII, 1910) il Mazzini metteva Foscolo e Byron a capo di una scuola opposta a quella manzoniana e contraddistinta da una posizione di estremo «entusiasmo e passione», piú forte nella «maledizione» che nell’«amore», teoricamente inclinante allo «scetticismo», ma avvivata da un «istinto del cuore» e della fantasia (scuola culminata nel Guerrazzi). La glorificazione e la precisazione dei limiti del Foscolo, precursore di una nuova letteratura e di un nuovo atteggiamento morale e politico, ma trattenuto in una posizione ancora contraddittoria dal suo classicismo e dal pensiero materialistico, viene poi meglio chiarendosi nella prefazione al Commento foscoliano della Divina Commedia (1842, in Scritti editi e inediti cit., XXIX) nella quale, dopo aver confermato che il Foscolo fu un uomo che «solo forse fra i moti del periodo tempestoso in che visse, serbò incorrotto, immutato davanti al potere, davanti alla prospera e all’avversa fortuna e all’esilio e alla fame, l’indipendenza dell’anima e del pensiero, e riconsecrò a sacerdozio in Italia l’arte, scaduta purtroppo, salve poche eccezioni, a mestiere», il Mazzini verifica l’insufficienza del Foscolo a farsi vero «sacerdote» di Dante, perché «troppe delle vecchie credenze sulla natura umana e sulla legge che regola le sorti delle nazioni combatterono nell’anima sua i nuovissimi presentimenti» ed egli «non ebbe fede, quanta volevasi, in una poesia nazionale e pur faticando sull’orme del pensiero moderno, s’ostinò, anche per le memorie dell’infanzia, nelle forme greche» (e tuttavia lo stesso profondo interesse del Foscolo per Dante, la sua stessa tesi interpretativa della Commedia, furono motivi ulteriori dell’ammirazione mazziniana).

29 «Le opinioni scettiche o disperate che s’incontrano nelle sue pagine prorompono subitanee, come getti di passione impaziente, non come frutto di sistema filosofico meditato lungamente e logicamente» (op. cit., p. 177). Notevoli anche le osservazioni, nel côté democratico e addirittura alla sinistra di Mazzini, di G. Ferrari che vide però, diversamente da Mazzini, i rischi della prospettiva eroico-classicista del Foscolo e le sue contraddizioni nella storia difficile dell’epoca napoleonica (Rivoluzione e rivoluzionari in Italia, in «Revue des Deux Mondes», 15 novembre 1844 e 10 gennaio 1845, ora a cura di F. Della Peruta, Milano 1952) e gli spunti di C. Pisacane che (nel Saggio sulla rivoluzione del 1849, in Saggi storico-politici militari, 1858-1860 e ora a cura di A. Romano, Milano 1957, e ancora Saggio sulla rivoluzione, a cura di F. Della Peruta, Torino 1970) sosteneva l’immagine politica del Foscolo soprattutto in senso unitario, indipendentistico e antifrancese.

30 V. Sciocchezzaio, in G. Scalvini, Foscolo, Manzoni, Goethe, a cura di M. Marcazzan, Torino 1948, p. 344.

31 Considerazioni sull’Ortis, in «Biblioteca Italiana», 1817 (ora in Foscolo, Manzoni, Goethe cit., p. 62). Sulla critica foscoliana dello Scalvini si veda M. Marcazzan, U. Foscolo nella critica di G. Scalvini, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», 1934 (ora in Romanticismo critico e coscienza storica, Firenze 1947), che studia i rapporti personali dello scrittore bresciano con il Foscolo (la cui influenza è evidente nelle sue poesie e specie nell’Esule), il suo progressivo distacco dalla giovanile ammirazione, giustificato anche in base ai crescenti tormenti della coscienza morale del critico, la sua polemica con le posizioni ideali e critiche foscoliane, la validità e i limiti dei giudizi sul poeta: ma esagerata è certo l’importanza di un giudizio dello Sciocchezzaio sulla composizione e natura frammentaria dei Sepolcri («Questo carme è come una miniera di piccoli poemetti di cui l’autore si è esclusivamente occupato l’un dopo l’altro, né ha derivato pei susseguenti ispirazione dai precedenti») legato anche com’è all’altra osservazione negativa e assolutamente infruttuosa nella storia della critica foscoliana: «I versi dei Sepolcri sono ad uno ad uno tutti belli: alti i pensieri, sobrio lo stile: ma sono senza vita, non sono animati dal fresco alito che fa viva ed amabile la natura e le produzioni dei suoi piú grandi vagheggiatori. Sono il cadavere d’una bella donna, una effigie che ha tutti i caratteri della persona ritratta tranne i segni della sua anima».

32 Vero è che un secondo articolo avrebbe dovuto completare l’analisi scalviniana da un punto di vista piú direttamente estetico (v. introd. di Marcazzan a Foscolo, Manzoni, Goethe cit., p. 24): ciò che rimase però allo stato di intenzione. Lo Scalvini nella sua condanna dell’Ortis e della sua perniciosità morale («Né l’eccellenza dell’ingegno benché possa far perdonare alcuni errori, scolpa giammai la volontà studiosa a malfare») utilizzava la stessa Notizia bibliografica del Foscolo che avrebbe ribadito, contro le promesse iniziali dell’autore, la sua incapacità a criticarsi ed emendarsi. Ciò che osservava in maniera assai simile lo Stendhal (frammento del 27-28 ottobre ’18, in Pages d’Italie, Paris 1932, pp. 148-149). I giudizi stendhaliani sul Foscolo (piú indicativi per il gusto del grande romanziere che non per il loro autonomo valore critico) riguardano soprattutto Ortis e Sepolcri: circa il primo è rilevabile la condanna in quanto romanzo fallito (in contrasto con la ricchezza di situazioni romanzesche offerte dalla terra appassionata delle Chroniques italiennes) e la riduzione della passione ortisiana a retorica di «belles phrases» (v. Correspondance, lettera del 3 gennaio 1823, Paris 1908, II, p. 286), che contrasta con il precedente riconoscimento della naturalezza di quell’opera (Pages d’Italie cit., pp. 148-149, cfr. A. Caraccio, Stendhal, Foscolo et les «Ultime lettere», in «Le Divan», 1932-1933); circa i secondi va notata l’incerta valutazione, nella ricerca di grazia e delicatezza contro l’eccessiva presenza di colore artificioso, di luce brillante, di impeto patriottico che renderebbe però eccellente il passo sul Machiavelli considerato, d’altra parte, piú come satira che lirica (cfr. «Courrier Anglais», 16 novembre 1825, I, p. 216). Altissima è la valutazione del sonetto Alla sera sentito declamare a Roma nel Palazzo Strozzi: «Les vers admirables de Foscolo ont redoublé ce que cette situation de l’âme (la mélancolie) a de touchant. En idéalisant les peines qui peut-être pésaient sur quelques âmes, il leur a enlevé sans doute ce qu’elles avaient de trop amer» (3 mars 1828, in Promenades dans Rome, in Voyages en Italie, Paris 1973, pp. 760-761). E pur con accenni contraddittori fra la genialità del Foscolo e la sua pedanteria condizionata dallo stato della letteratura italiana di primo Ottocento (si veda in Rome, Naples et Florence en 1817, alla data 28 dicembre 1816, in Voyages en Italie cit., p. 20: «Ici, un homme de génie comme Foscolo s’amuse à faire un pamphlet latin contre ses ennemis» – Didymi Clerici epistolae –, e nella relativa nota Foscolo è detto «le premier poète d’Italie» ma «après Monti» e «comme Monti, il ne pense beaucoup, mais il versifie supérieurement»), Stendhal esalta cosí i Sepolcri (in una lettera del 9 aprile 1819 al de Mareste, in Correspondance, I, Paris 1962, p. 963): «Connaissez-vous I Sepolcri de Foscolo? Ce sont sixcent vers imprimés en 1802. C’est ce qu’il y a de mieux depuis vingt ans... Quelle énergie, quelle fureur, quelle ira!». Strana l’assenza dei giudizi stendhaliani nella breve bibliografia di studi foscoliani francesi nel volume di R. Vivier, U. Foscolo, Paris 1934.

33 A. Rosmini, Opuscoli filosofici, Milano 1827, I, pp. 405-406.

34 Op. cit., II, p. XXVI. Nell’Apologetica (Milano 1840, p. 15) il Rosmini aggiunse: «Il Foscolo appalesa piú manifestamente d’ogni altro scrittore l’affezione morbosa della letteratura del suo tempo, e, come i belli e finissimi panni non rendono migliore la condizione dell’agonizzante che li ha indosso, cosí niente ad Ugo suffraga l’ammirevole lavorio ond’egli sfoggiò e torní l’esterna forma del carme sui Sepolcri, il quale esanime per la sostanza, sol per quella vive e vivrà».

35 La posizione polemica rosminiana parve eccessiva anche al Gioberti, che piú volte (lettera a C. Balbo, in Epistolario, Ed. Naz., vol. V, Firenze 1930, p. 92; nella Réponse à la «Revue des deux mondes», in Degli errori filosofici di A. Rosmini, in Opere, Ed. Naz., vol. X, Milano 1939, pp. 235 ss.) cita gli emportements del Rosmini contro il Foscolo. Il giudizio del Gioberti nei riguardi del Foscolo come dell’Alfieri e del Leopardi (citati molto spesso insieme nell’evidente costruzione di una linea ideologica e letteraria la cui individuazione fa onore al suo acume) è ispirato ad una simpatia e ad un’ammirazione che non eliminano naturalmente la condanna delle loro posizioni filosofiche e religiose (v. Gesuita moderno, in Opere cit., XVI, p. 217; e Del Bello, in Opere, XI, p. 159, in cui critica l’interpretazione foscoliana di Dante), ma che le spiegano piú serenamente e storicamente riserbando a quei grandi poeti, e grandi spiriti, una particolare funzione come promotori di coscienza civile e patriottica. Sicché in qualche modo la sua distinzione fra il pensiero sensistico e il «vitale nutrimento» della loro poesia e della loro esemplare vita viene ad avvicinarsi alla distinzione, seppur diversamente intonata, dei mazziniani.

36 Nello scritto Della poesia del «Fausto» di Goethe, in Foscolo, Manzoni, Goethe cit., p. 276.

37 Nel Carteggio Tommaseo-Capponi, Bologna 1911, I, p. 535 (ora in N. Tommaseo, Lettere inedite a E. De Tipaldo, a cura di R. Ciampini, Brescia 1953, pp. 17-19). A sua volta E. De Tipaldo (sul cui riprovevole atteggiamento nei riguardi del Foscolo si veda il citato articolo del Gambarin) riprendeva evidentemente, ma in maniera grossolana e mediocre, molti dei giudizi offertigli dal Tommaseo nelle sue lettere («Esercitazioni dell’Ateneo Veneto», II, 35) e nei suoi piú tardi Pensieri sulle opere di N. U. F. (Venezia 1869) copiava quasi alla lettera alcuni dei passi piú stroncatorii dell’articolo del Tommaseo sul Foscolo nel Dizionario d’estetica.

38 Lettere ad A. N.: Intorno a U. Foscolo, Prato 1847 (poi in Dizionario d’estetica, Milano 18603, II; la Ia ed. incompleta del Dizionario è del 1840).

39 Ed è qui che il Tommaseo tocca il culmine della sua efficacissima malignità, come quando, per compendiare la vita inglese del Foscolo, escogita questo paragone mortificante con Byron: «Il Foscolo in Inghilterra, come il Byron in Grecia, trovò la sua Missolungi. L’anima sua cadde invilita e intristita, non, com’egli del Boccaccio scrisse, dai terrori della religione, ma dalla paura degli sbirri. Quale sia meglio dei due, lascio che dicano i creditori» (op. cit., p. 104). Altra durissima stroncatura piú tarda è in La Nazione educatrice di sé, Reggio Emilia 1922, pp. 151-154.

40 Dizionario d’estetica cit., II, pp. 123 e ss. (l’articolo Il Foscolo e il Vico era originariamente un’appendice del libro G.B. Vico e il suo secolo, scritto nel 1843, poi in Storia civile nella letteraria, Torino 1872, e ripubblicato a Torino, nel 1930, a cura di A. Bruers).

41 Come rimproverava di tale assenza la stessa nozione foscoliana di poesia: «Le immagini, lo stile e la passione sono, dic’egli, elementi di ogni poesia. E il concetto?» (Dizionario d’estetica cit., p. 103).

42 U. Foscolo, Prose e poesie, Venezia 1842 (ora in L. Carrer, Scritti critici, a cura di G. Gambarin, Bari 1969, pp. 479-720).

43 Op. cit., p. XIV (ora in Scritti critici cit., p. 497).

44 Cfr. op. cit., pp. LXIV-LXVI (ora in Scritti critici cit., pp. 578-580). Già prima di lui F. Ambrosoli (Sonetti di ogni genere, Milano 1834, p. 255, e Sull’originalità e lirica del Foscolo, in «Biblioteca Italiana», 1833) aveva notato l’eccezionale incontro nel Foscolo di tradizione e originalità.

45 «He has more of the ancient Greek than of the modern Italian» (The works of Byron, 1901, V, p. 89). E piú tardi M. Monnier (L’Italie est-elle la terre des morts?, Paris 1860, p. 10) riprendeva questo luogo comune romantico: «Tout est grec dans Foscolo, la pensée et même la phrase. Ses obscurités sont des hellénismes...».

46 Op. cit., p. LXXXIX (ora in Scritti critici cit., p. 617).

47 Limitò però troppo severamente l’importanza del contributo carreriano G. Gambarin (La critica di L. Carrer e di G. Bianchetti, in «Rivista d’Italia», 1913) seguito da Naselli, La fortuna del Foscolo nell’Ottocento cit. (v. ora del Gambarin sul Carrer critico la nota agli Scritti critici cit. e il saggio Carrer critico, in Saggi foscoliani e altri studi cit.).

48 Per l’influenza della prosa ortisiana sulla prosa del Mazzini si veda A. Momigliano, La prosa romantica di Mazzini, in «Ponte», 1945 (e ora in Ultimi studi, Firenze 1954; cfr. anche, per Mazzini e Guerrazzi, la sua Storia della letteratura italiana, Messina 1936, pp. 528 e 540); ma meriterebbe un particolare studio l’influenza dell’Ortis nel costume etico-politico e letterario del Risorgimento (anche nei suoi incontri con l’influenza byroniana), come lo meriterebbe la generale efficacia della personalità e della poesia foscoliana su quell’epoca (per la confluenza del mito foscoliano con quello alfieriano nel Risorgimento si veda V. Cian, Gli alfieriani-foscoliani piemontesi e il romanticismo lombardo-piemontese del primo Risorgimento, Roma 1934; e L. Russo, I poeti numi del ’48, in «Belfagor», 1949, per l’attiva presenza del mito foscoliano nella lotta nazionale, testimoniata anche da numerosi componimenti poetici e drammatici in onore del Foscolo, che ebbero poi grande sviluppo all’epoca del trasporto delle ceneri foscoliane in Santa Croce, per cui cfr. Naselli, La fortuna del Foscolo nell’Ottocento cit., pp. 238 e ss.). Per l’influenza della versione sterniana sui narratori romantici e sugli Scapigliati, si veda G. Rabizzani, Sterne in Italia, Roma 1920, che non distingue però fra l’influenza diretta di Sterne e quella della versione foscoliana, giudicata da lui in generale come la piú frequente (op. cit., p. 125).

49 Storia della letteratura italiana, Firenze 1865, pp. 607 e 610.

50 Lettere critiche (Perché la letteratura italiana non sia popolare), Milano 1856 (ristampa delle lettere pubblicate nello «Spettatore» del ’55): «prosatore mediocre; gonfio o forzato nelle frasi, ambiguo e incerto nelle parole; di concetti o esagerati o vieti o non maturi, e dominato perpetuamente da una paura puerile del senso comune nel pensare o nell’esprimersi. Quella per cui può piacere è una certa profondità di sentire, che è la vera qualità della sua poesia scarsa di vena, ed un certo vigore selvaggio nella frase, che quanto gli nuoce nella prosa, tanto gli giova nei versi, a fargli trovare una forma nuova e peregrina. Un altro suo difetto, il piú radicale – vo dire l’imperfezione grandissima delle facoltà discorsive e raziocinative della sua mente: imperfezione tanta e tale che non riesce a ragionare neppure le cose ragionevoli che dice» (p. 41).

51 Si leggano ad esempio nel volumetto encomiastico di G. De Castro, U. Foscolo, Torino 1863, queste frasi utili a precisare la particolare situazione sentimentale dei lettori foscoliani negli anni dell’unità: «Se vi ha un’epoca la quale possa al giusto comprendere e onorare la forte anima di U. Foscolo, quest’epoca è la nostra... Noi abbiamo provato tutte le angosce che non concessero pace all’autore dei Sepolcri e che gli fecero con prepotente anelito vagheggiare il freddo silenzio della tomba. Noi pure abbiamo disperato della vita... e anche noi abbiamo lottato e abbiamo vinto. Potesse l’uomo che prima e solo iniziò quella lotta, aver nel sepolcro senso della vittoria...». I Sepolcri sono «inno funebre» che «sembra insieme annunciar la morte di un popolo e la sua resurrezione».

52 Studi politici e letterari su U. Foscolo, in «Pensiero ed Azione», 1858, e poi ripresi, con cambiamenti, in Teste e figure, Padova 1877.

53 I quali «avrebbero volentieri deposto la penna ed accese le fiamme del Sant’Uffizio» «temendo che le opinioni del Foscolo col diventare piú popolari in Italia sturbino i loro propositi di castrare la gioventú e renderla delira e contemplante come gli armenti della Tebaide» (Storia della letteratura italiana, Firenze 1855, II, p. 457). Il contributo migliore dell’Emiliani-Giudici è la sua valutazione altissima della critica del Foscolo (l’opera che il Foscolo «prestò come critico alla patria letteratura è forse piú grande e benefica di quella che egli prestavale come artista»). Di quella critica egli sentiva la eccezionale novità, ma ne accentuava poi eccessivamente la funzione civile, educativa, «l’insegnamento politico», accettando troppo facilmente, anche per quel che riguarda la lirica foscoliana, l’interpretazione politica foscoliana della propria opera. In tal caso egli finí per essere sin troppo fedele ad un insegnamento che in generale fruttò notevolmente nella linea storico-politica che innerva vigorosamente la sua Storia e fu invece meno attento a quei valori letterari a cui pure la lezione critica foscoliana lo aveva educato e la cui considerazione nel caso di altri poeti era stata in lui assai efficace ed acuta.

54 U. Foscolo e l’Italia, in «Politecnico», 1860, ora in Scritti letterari, Firenze 1948, I, p. 304.

55 «Non sarebbe agevole provare che quella tetra lettura abbia fatto piú numerosi suicidi in Italia che altrove; ma certo è che essa accrebbe nei figli d’una generazione spensierata e ignara il numero dei pensanti e dei volenti, e a maturar tempo, quello degli eroi» (op. cit., p. 288).

56 Quell’inno (di cui si loda la libertà «dal Procuste germanico») «spira una serenità che non era nell’animo del poeta, e forse per ciò... egli non poté trarlo a fine, e nemmeno porre ben in chiaro l’idea che glielo dettava» (op. cit., p. 315).

57 In Alberto Mario (1901), in Opere, XIX.

58 Anche fuori d’Italia si riprende la valutazione politico-nazionale del Foscolo, sí che A. Roux (Histoire de la littérature italienne, Paris 1870, III, p. 57) giungeva a svalutare la parte ultima dei Sepolcri perché mancante del piú diretto motivo patriottico e di precisi ricordi nazionali infelicemente sostituiti dai ricordi indiretti di una Grecia lontana e favolosa.

59 Assai fini ed acute, pur nella intonazione di difesa e glorificazione (contro cui si levò ancora una volta il Tommaseo, v. Secondo esilio, Milano 1862), sono invece le pagine dedicate al Foscolo da C. Tenca nel «Crepuscolo» (1851-1854) come recensione dei volumi dell’ed. Le Monnier (specie interessanti quelle sull’epistolario), pagine raccolte poi nel I vol. delle Prose e poesie scelte di C. Tenca, a cura di T. Massarani, Milano 1888 (e ora in Scritti critici, Firenze 1969).

60 Nelle ragioni di questa piena adesione alla poesia dei Sepolcri da parte del gusto romantico in questa fase piú tarda va calcolata, insieme alla prevalente componente patriottica, una componente di costume sentimentale e poetico di malinconia virile, di elegia stoica, di sguardo fermo e dolente sulla morte e sul sepolcro, di appassionato culto del ricordo e della personalità degli scomparsi recuperati nella religione attiva dei sepolcri, nella vitalità consolante dei cimiteri-giardino: costume sentimentale ed estetico, religione laica delle tombe che (al di là di precedenti esempi sporadici e piú atteggiati nel gusto preromantico dei cimiteri all’inglese) si precisano proprio in quei nuovi cimiteri civili, formatisi in varie città italiane negli anni fra il ’50 e il ’70, e ispirati chiaramente all’ideale cimitero classico-romantico dei Sepolcri. Questo particolare aspetto del foscolismo ottocentesco dovrebbe venire particolarmente studiato (anche nel suo incontro con elementi dell’influenza leopardiana sulla sentimentalità del pieno e tardo romanticismo) in quella storia della religiosità laica risorgimentale e postrisorgimentale in cui tanto posto hanno la suggestione e l’educazione sentimentale della poesia dei Sepolcri. Per non dir poi della efficacia della poesia foscoliana nel linguaggio poetico del tardo romanticismo nella sua particolare ripresa di innesti neoclassici-romantici: e si pensi almeno a certi aspetti della poesia dell’Aleardi.

61 Nel «Cimento», ottobre 1855 (poi in Saggi critici, Napoli 1874), che cito nell’ed. a cura di L. Russo, Bari 1952, I.

62 Op. cit., pp. 197 e 192.

63 Uscito nella «Nuova Antologia», fu raccolto poi nei Nuovi saggi critici, Napoli 1879 (ora in Saggi critici cit., III).

64 Si veda in proposito l’articolo di M. Rosi, Il trasporto delle ceneri di U. Foscolo in S. Croce, in «Nuova Antologia», 1928.

65 Per il trasporto delle reliquie di U. Foscolo in S. Croce, in Levia-Gravia.

66 Nelle lezioni napoletane del ’42-43 sui generi letterari (v. Teoria e storia della letteratura cit., I, pp. 250-251) il giudizio sull’Ortis è pure molto limitativo e il De Sanctis insiste sulla sua imitazione del Werther e sulla sua mancanza di originalità: «Il primo (Werther) sortí spontaneamente; il secondo per imitazione dell’altro; il primo, tale che faceva presagire il Faust e le altre grandi opere del suo autore; il secondo, che non lasciava sperare i Sepolcri»; «Il Foscolo imita, non crea: cangia i nomi, le situazioni; e temendo poi di sembrare imitatore, le mescola e guasta. E distrugge le gradazioni, e il suo romanzo dal principio alla fine è una sola situazione; donde poteva nascere una lirica, non un romanzo». È l’ultima affermazione quella che fu chiaramente ripresa nel saggio, mentre in questo è nettamente scartata la dipendenza dell’Ortis dal Werther e il loro paragone è mantenuto solo per mostrare le differenze, specie per quel che riguarda la natura di «poesia in prosa» dell’opera foscoliana.

67 «... un romanzo, dove si sentono come diversi strati di formazione, mal dissimulati dal lavoro posteriore» (op. cit., p. 89). Anche il Carducci (sullo spunto di un’osservazione del Chiarini circa la Laura) fece l’ipotesi che nell’Ortis si potessero «distinguere o scernere due o tre elementi diversi, due o tre diversi momenti di concezione e di elaborazione» (Adolescenza e gioventú poetica di U. Foscolo, in Opere, XVIII, Bologna 1944, p. 162).

68 Op. cit., p. 94. Nei riguardi della prosa ortisiana il giudizio desanctistano si può avvicinare solo piuttosto esternamente a quello di manzoniani come R. Bonghi, già ricordato. Il De Sanctis però si distacca nettamente dall’accusa del Bonghi alla mancanza di pensiero nel Foscolo (che era poi ripresa di posizioni tommaseane) riconoscendo la profonda originalità del critico, la ricchezza e la novità delle sue idee e della sua potente capacità di reintegrare nella critica, come nella poesia, la coscienza e il mondo interiore (v. op. cit., p. 109).

69 Op. cit., p. 97.

70 Cfr. op. cit., pp. 97-98.

71 Op. cit., p. 101.

72 Op. cit., p. 103.

73 Osservazione che direttamente riprende una indicazione dello stesso Foscolo e può mostrare come il De Sanctis sapesse originalmente utilizzare alcune importanti offerte della autocritica foscoliana.

74 Nelle giovanili lezioni napoletane, già ricordate, il De Sanctis aveva parlato dei Sepolcri come della vera espressione dell’animo foscoliano e come prima apparizione nella lirica italiana di una poesia «morale, sociale e patria» tentando una significativa giustificazione integrale del carme: «E se a prima vista par che quel carme sia un lavoro didascalico, in effetti esso è tutto poetico, perché il poeta sostituisce al ragionamento le proprie impressioni, agli argomenti i fantasmi di Santa Croce: la forza educatrice dei sepolcri, ecco quel che parrebbe il suo concetto ed è invece il suo sentimento» (Teoria e storia della letteratura cit., I, p. 161).

75 Abbiamo già ricordato gli accenni del Cattaneo e la valutazione entusiastica dell’Emiliani-Giudici, ma è evidente che solo con il De Sanctis si precisa il valore della novità della critica foscoliana di cui egli avverte la singolare forza di interpretazione storico-psicologica, anche se meno ne rileva la capacità di penetrazione filologica e linguistica.

76 F.S. Orlandini aveva presentato le Grazie come intero poema di cui egli avrebbe raccolte «le sparse membra, (riordinate) in quell’armonia sulla quale aveva fede che arridessero alla mente del Poeta» (Le Grazie, Firenze 1848, p. VI. Testo assurdo e falsificatore, pieno di concieri e interpolazioni del curatore, che venne poi dissolto dal nuovo lavoro filologico del Chiarini). Nel suo saggio Perché U. Foscolo non finisse le Grazie (1882), raccolto in Horae subsecivae (Napoli 1888), R. Bonghi individuò le ragioni della incompiutezza degli inni nel fatto che «la lena dell’ingegno poetico del Foscolo è forte, ma è breve», e che egli «s’era formato dell’arte e della poesia due concetti del pari falsi e per soprappiú cozzanti l’uno coll’altro» (p. 253): cioè la concezione della poesia come opera didascalica e quella della poesia come pittura. Accuse che si riconducevano alla critica bonghiana di una insufficienza del pensiero foscoliano sviato da false teorie estetiche.

77 Op. cit., p. 107.

78 Ibid.

79 Op. cit., p. 108.

80 Si deve fare eccezione per L. Settembrini che nelle sue Lezioni di letteratura italiana (lezione LXXXXIV) esaltò le Grazie come «la piú bella poesia del Foscolo; piú bella dei Sepolcri assai... Uno dei capolavori dell’arte moderna». Ma egli, che accettava il raffazzonamento orlandiniano come schietta opera foscoliana, non dette che una lunga ed entusiastica esposizione del carme (che occupa quasi tutto il suo breve capitolo foscoliano) senza alcuna giustificazione critica, sostituita da questa generica esortazione ai giovani: «Io non posso esaminare questa poesia da cui fioccano bellezze infinite: voi dovete sentirla, e misero chi di voi non la sente» (op. cit., Napoli 1924, III, pp. 253 e 264).

81 Op. cit., p. 109.

82 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, Bari 19494, II, pp. 402-403.

83 Si veda in proposito la mia introduzione a F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, edizione commentata, Bari 1953, 19602, pp. XXIII-XXV.

84 «Gazzetta di Milano», 23 settembre 1869.

85 Una ripresa gretta e pettegola dei vecchi attacchi alla coerenza politica del Foscolo, all’integrità della sua vita privata (debiti, gioco, scorrettezze amministrative nell’esercito ecc.), all’insegna nuova della «verità» («in questi tempi in cui si vuole il vero ad ogni costo e l’idolatria e il dogma con ogni forza si cacciano da banda»), è costituita dal volumetto di L. Corio, Rivelazioni storiche intorno ad U. Foscolo, Milano 1873 (con documenti tratti dall’Archivio di Stato di Milano, pubblicati però con molti errori), a cui replicò prontamente A. D’Ancona (A proposito delle Rivelazioni ecc., in «Nuova Antologia», ottobre 1873) denunciandone «l’intenzione inquisitoriale e lo spirito fiscale del giudice d’istruzione». Una intonazione agiografica e la proposta di una personalità esemplare sono invece presenti, oltreché in epigoni mazziniani, in studiosi del nuovo periodo, come C. Antona Traversi, che nel volume U. Foscolo nella famiglia, Milano 1884, mira a glorificare (in accordo con la nuova attenzione ai valori dell’uomo privato) «il figliuolo riverente, amoroso, esemplare» (costatazioni del resto non inutili ai successivi rilievi donadoniani sulla bontà e purezza foscoliana), mentre P. di Colloredo Mels nelle sue Note e impressioni ricavate dalle opere di U. Foscolo, Padova 1882, apprestava un dizionarietto antologico di pensieri e sentenze foscoliane da offrire come esempi ai giovani.

86 C. Antona Traversi, U. Foscolo nella famiglia cit.; Id., Studi su Ugo Foscolo, su documenti inediti, Milano 1884; Id., Dei natali, dei parenti, della famiglia di U. Foscolo, Milano 1886 (contributi biografici ripresi e sviluppati per lunghi anni in riviste e giornali e, piú tardi, in altre opere dello stesso studioso: U. Foscolo, raccolta di studi con documenti inediti o rari, Milano 1926; Studi e documenti sopra U. Foscolo, riordinati e raccolti, Bologna 1930, e, in collaborazione con A. Ottolini, U. Foscolo: Vita e opere, Milano 1927-1928); G.A. Martinetti, Documenti sulla vita militare di U. Foscolo, Livorno 1883; G. Chiarini, Gli amori di U. Foscolo, Bologna 1892; Id., Vita di U. Foscolo, Firenze 1910. Piú incerte, e criticate per i loro errori dai piú sicuri studiosi del metodo storico, le vite foscoliane di P. Pavesio (Della vita e delle opere di U. Foscolo, Torino 1870), di P. Artusi (Vita di U. Foscolo, Firenze 1878), di F.G. De Winckels (Vita di U. Foscolo, Verona 1885-1898). Fra gli altri numerosissimi studi biografici di questo periodo ricordiamo A.A. Michieli, Foscolo a Venezia, in «Nuovo Archivio Veneto», 1903-1904; e F. Viglione, U. Foscolo in Inghilterra cit.

87 Poesie di U. Foscolo, a cura di G. Biagi, Firenze 1883; Le poesie di U. Foscolo, a cura di G. Chiarini, Livorno 1882 (nuova ed. 1904); Poesie, a cura di G. Mestica, Firenze 1884; Poesie di U. Foscolo, a cura di C. Antona Traversi, Roma 1889 (frammenti di sermoni, epigrammi ecc.).

88 Le ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G.A. Martinetti e C. Antona Traversi, Saluzzo 1887 (una migliore ed. critica fu poi data da V. Cian, nella sua ed. incompiuta delle Prose del Foscolo, Bari 1912-1920).

89 A. Siliprandi, Saggio d’interpretazione del carme sui «Sepolcri» di N. U. F., Milano 1872; Dei Sepolcri, a cura di U.A. Canello, Padova 1873 (ampliato da A. Belloni, Padova 1900); De’ Sepolcri, a cura di G.A. Martinetti, Torino 1874; Le Grazie, a cura di G.A. Martinetti, Torino 1877; Il carme dei «Sepolcri» e altre poesie, a cura di F. Trevisan, Verona 1881; Poesie, lettere e prose letterarie di U. Foscolo, a cura di T. Casini, Firenze 1891; Liriche scelte, i «Sepolcri», le «Grazie» di U. Foscolo, a cura di S. Ferrari, Firenze 1891 (accresciuta da O. Antognoni, Firenze 1918); Prose scelte critiche e letterarie di U. Foscolo, a cura di R. Fornaciari, Firenze 1896; Poesie scelte di U. Foscolo, a cura di R. Fornaciari, Firenze 1897; L’opera letteraria di U. Foscolo, a cura di E. Mestica, Livorno 1907; Prose e poesie di U. Foscolo, a cura di E. Marinoni, Milano 1913. Da ricordare inoltre gli Studi sui «Sepolcri» di U. Foscolo, di A. Ugoletti, Bologna 1888, che contengono un commento al carme.

90 Per l’elenco delle raccolte di lettere, successive all’edizione lemonnieriana dell’epistolario (e solo in piccola parte riportate nell’appendice di quella ed. a cura di G. Chiarini, 1890), rimando alla bibliografia alla fine di questo saggio nel secondo volume dei Classici italiani nella storia della critica, Firenze 1955.

91 Per l’Ortis e le influenze wertheriane, rousseauiane e il parallelo col Werther ricordo (rinviando per notizie piú complete al Saggio di una bibliografia ragionata dell’«Ortis», di F. Pavone, in «Biblion», I [1946-1947]): F. Zschech, U. Foscolo und sein Roman «Die letzten Briefe des J. Ortis», in «Preussische Jahrbücher», 1879-1880; Id., U. Foscolo’s «Ortis» und Goethes Werther, in «Zeitschrift für Vergleichende Literatur», 1890; F. Donaver, Intorno all’origine dell’«Ortis», in «Fanfulla della Domenica», 1887; M. Landau, Goethes «Werther »und Foscolos «Ortis», in «Allgemeine Zeitung», 1887; B. Zumbini, Werther e Ortis, Napoli 1905 (poi in Studi di letteratura comparata, Bologna 1931); E. Marinoni, introduz. alla sua ed. di Prose e poesie scelte di U. Foscolo, Milano 1913. Per la genesi, composizione, fonti dei Sepolcri e per la lunga querelle sul «sopruso» foscoliano ai danni del Pindemonte (discussione esposta riassuntivamente nel vol. II di U. Foscolo di A. Ottolini e C. Antona Traversi, Milano 1927) si vedano: F. Trevisan, Origine e natura del carme «I Sepolcri», Mantova 1879; C. Antona Traversi, Della prima vera origine dei «Sepolcri», Napoli 1882; G. Biadego, I Cimiteri e i «Sepolcri» del Pindemonte, in «Gazzetta Letteraria», 1882; Id., L’origine dei «Sepolcri», in Da libri e manoscritti, Verona 1883; S. Peri, Il carme di U. Foscolo e l’epistola di I. Pindemonte, in «Rivista Europea», 1882; C. Antona Traversi, La vera storia dei «Sepolcri» di U. Foscolo, Livorno 1884; F. Torraca, I «Sepolcri» di I. Pindemonte, in «Nuova Antologia», 1884 (poi in Discussioni e ricerche letterarie, Livorno 1888); F. Novati, Per il Foscolo, in «Cronaca Sibarita», 1885; S. Peri, Foscolo e Pindemonte, Milano 1888; A. Ugoletti, Studi sui «Sepolcri» cit.; A. Cima, Sulla composizione dei «Sepolcri», in «Cultura», 1889; B. Zumbini, La poesia sepolcrale straniera e italiana e i «Sepolcri» del Foscolo, in «Nuova Antologia», 1889 (poi in Studi di letteratura italiana, Firenze 1894); V. Cian, Per la storia del sentimento e della poesia sepolcrale in Italia e in Francia prima dei «Sepolcri», in «Giornale storico della letteratura italiana», XX (1892). Naturalmente posizioni rilevanti circa tali questioni si trovano in molti dei commenti già ricordati. Per i «paralleli» occorrerà ricordare il saggio di G. Zanella, Foscolo e Gray, in «Nuova Antologia», 1881 (poi in Paralleli letterari, Verona 1886).

92 Notevole per la conoscenza della cultura classica foscoliana il saggio di V. Cian, Foscolo erudito, in «Giornale storico della letteratura italiana», XLIX (1907).

93 V. Opere, IV, p. 329.

94 La stessa Vita di U. Foscolo cit. del Chiarini, che è il frutto migliore delle ricerche biografiche di questo periodo, è viziata da preoccupazioni anguste di difesa o di condanna dell’uomo su di un piano mediocre e moralistico, e perde di vista elementi essenziali della vita intima foscoliana per la soverchia attenzione rivolta alle difficoltà finanziarie e agli «amori» del poeta, che lo stesso Chiarini, nella sua opera Gli amori di U. Foscolo cit., e molti altri studiosi dell’epoca avevano moltiplicato esageratamente, fra amore della scoperta biografica e incerte reazioni di sdegno puritano e di repressa malizia.

95 «Con tanta verità che veggo le fiamme», dice il Canello a proposito del v. 205 dei Sepolcri. Naturalmente i commenti piú fini e piú attenti ai valori linguistici e letterari (sia pure in forma di citazioni di fonti) son quelli dei carducciani, e specialmente quello cosí importante di S. Ferrari. Anche sulla validità del lavoro filologico del metodo storico vanno pur fatte delle riserve e cosí l’edizione critica delle Grazie del Chiarini, se rappresenta un passo avanti di grande valore di fronte al raffazzonamento acritico dell’Orlandini, è essa stessa difettosa e inaccettabile tanto che l’opera del nuovo editore, come dimostrò magistralmente il Barbi nello studio fondamentale che sarà piú avanti citato, dovrà consistere nel ripartire dai manoscritti disfacendo e slegando in gran parte ciò che il Chiarini aveva organizzato in maniera troppo meccanica ed arbitraria. In sede estetica poi il Chiarini non comprende affatto la poesia che aveva per tanti anni studiato dal punto di vista filologico e che egli riduceva semplicemente a «una delle piú splendide imitazioni dell’arte antica» (ed. Vigo, 1882, p. CXXX); e, se nell’ed. 1904 soppresse questa frase e il giudizio negativo finale, non abolí però il suo consenso al vecchio giudizio del Carrer su quel classicismo «estraneo alla vita moderna». E mentre uno scolaro carducciano, l’Ugoletti, nei suoi Studi sui «Sepolcri» (cit., p. 496) trovava che i miti delle Grazie eran solo «una piacevole lusinga esteriore», tutti gli studiosi dell’ultimo Ottocento si limitarono a contraddire violentemente l’elogio del Settembrini con il quale non trovo coincidenze se non nel modestissimo Pavesio (Della vita e delle opere di U. Foscolo cit.) che è poi, per cronologia e gusto, precedente al vero periodo del metodo storico.

96 Cfr. le note opere di C. Lombroso, L’uomo delinquente, Milano 1876; Id., L’uomo di genio, Torino 1894; Id., Genio e degenerazione, Torino 1898; e P. Mantegazza, Il cranio di U. Foscolo, in «Archivio per l’Antropogeografia e l’Etnologia», 1871 (che trovava nel Foscolo «cervello non grande»); P. Bellezza, Genio e follia di A. Manzoni, Milano 1898; M.L. Patrizi, Leopardi, Torino 1896. Si noti poi che la reazione piú decisa all’inizio di queste ricerche venne da uno studioso, legato ancora al romanticismo risorgimentale, quale fu A. D’Ancona (U. Foscolo giudicato da un alienista, in «La Rassegna Settimanale», 1879, poi in Varietà storiche e letterarie, Milano 1883). Anche nei rarissimi casi di impazienza contro le interminabili discussioni su minimi particolari biografici o sull’eccesso del «fontismo» si tratta di chiari residui romantici, come si può constatare nel caso del libro di V. Scotti, U. Foscolo, Milano 1883, che d’altra parte, malgrado il sottotitolo impegnativo di saggio critico-letterario, si risolve in una scorsa superficiale alle varie opere foscoliane e conferma, se ce ne fosse bisogno, l’inanità di simili reazioni a quella che era l’ispirazione genuina, la problematica naturale di quell’epoca.

97 V. ad esempio U. Mianerba, U. Foscolo positivista, in «La Nuova Rassegna», 1894.

98 V. F. Trevisan, U. Foscolo e la sua professione politica, Mantova 1872; E. Kienerk, Gli scritti politici di U. Foscolo, Firenze 1893; P. Carbonara, La mente politica di U. Foscolo, in «Rassegna Pugliese», 1894.

99 Sul foscolismo carducciano si vedano le pp. 227-233 del saggio di F. Maggini, U. Foscolo nella tradizione toscana, nel volume miscellaneo Foscolo e Firenze, Firenze 1928.

100 V. nota alla poesia Per il trasporto delle reliquie di U. Foscolo in S. Croce, in Levia-Gravia.

101 «Domenica Letteraria», 2 luglio 1882 (poi in Opere, XVIII, Bologna 1944). Cfr. lettera del 29 giugno 1882 (Lettere, Ed. Naz., XIII, p. 305) al Chiarini: «Alla fine vedrai nella “Domenica Letteraria” la prima metà della recensione foscoliana. Resta la piú difficile». La «piú difficile» non fu mai scritta.

102 Nella prima parte del saggio è evidente una incertezza fra l’impegno serio, consistente nello studiare quella prima produzione per «trarne indicazioni e divinazioni sul poeta futuro», e la svalutazione ironica di quei componimenti (nel loro aspetto di «imparaticci») che il Carducci avrebbe voluto anche nell’edizione ben separati dall’opera matura del Foscolo, come avrebbe desiderato che il Chiarini in una nuova edizione, da contrapporre a quella del Mestica, cacciasse via le tragedie («quelle tragedie se io le potessi distruggere, fuori qualche scena dell’Ajace e forse della Ricciarda, sarei felicissimo», scriveva al Chiarini in una lettera del 5 aprile 1884, in Lettere cit., XIV, p. 273) accogliendo invece «al piú» la traduzione dell’Iliade.

103 Opere, XVIII (ed. 1944), p. 179.

104 Opere cit., XVIII, p. 183. Sull’ode All’amica risanata qualcosa di piú si aggiunge nel tardo studio Dello svolgimento dell’ode in Italia (1901), in cui, ribadita l’idea che le odi «non escono dal modulo pariniano», salvo un’aggiunta di «maggiore plasticità di contorni», il Carducci dichiara la seconda «unica a rendere uno stato dell’animo raro e fuggevole, la contemplazione della bellezza, nella quiete estetica, senza commozione di passioni, con un rapimento soave dell’immaginazione verso l’ideale» (Opere cit., XV, pp. 70-71).

105 Opere cit., VII, p. 404.

106 Nella sua Storia della letteratura italiana dalla metà del ’700 ai giorni nostri, Milano 1880, e nella Letteratura italiana nell’ultimo secolo, Città di Castello 1887, si possono notare, in mezzo a molti luoghi comuni insaporiti da una certa finezza, la valutazione della traduzione «sentimentale» di Omero, l’ammirazione del classicista per il verso foscoliano «perfetto» anche nelle Grazie, che pure aveva trovato «indigeste e non di rado stucchevoli» (Storia cit., p. 195) deridendo gli entusiasmi del Settembrini.

107 A. Graf, Rileggendo le «Ultime lettere di Jacopo Ortis», in «Nuova Antologia», 1895 (e poi in Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino 1898, 19554). Lo studio, dopo una prima parte che riprende in chiave psicologico-positivistica la critica desanctisiana alla situazione dell’Ortis e discute di questa la verisimiglianza e la possibilità di svolgimento (se l’autore avesse dato una «motivazione» sufficiente all’innamoramento del protagonista e se avesse incarnato le «due passioni» in personaggi vivi), si svolge in una indagine sul romanticismo foscoliano, che, pur fra molte incertezze e inutili cautele, implica una ricerca nell’animo e negli atteggiamenti estetici foscoliani che poté offrire spunti agli studi del Donadoni e del Manacorda.

108 Cosí si possono notare studi dal titolo promettente come quello di E. Brambilla, L’unità estetica del carme «I Sepolcri» (in Foscoliana, Palermo 1903) o come quello di A. Foà, L’unità estetica dei «Sepolcri» (in L’amore in U. Foscolo, Torino 1901), che si risolvono poi in ricerche di unità psicologica e culturale assai estrinseche ed antiquate (il secondo tenta di giustificare l’unità del carme nella compenetrazione di romanticismo e classicismo, come il primo la cercava nella sincerità del poeta e nella fusione logica e psicologica di diversi elementi).

109 Napoli 1905 (2a ed., Milano 1920, ristampata a Milano nel 1949 col titolo La critica romantica in Italia).

110 Due fonti della ragione poetica di U. Foscolo, in «Rivista d’Italia», 1909.

111 Come, prima del Rossi, aveva già fatto E. Montanari (U. Foscolo e le Grazie, in «Rassegna Nazionale», 1903) in uno studio che valutava soprattutto i rapporti di quella poesia con le arti figurative nel suo principio neoclassico di pittura-poesia.

112 Palermo 1910, 2a ed. postuma, a cura di A. Omodeo, Palermo 1927 (ora a cura di R. Scrivano, Firenze 1964).

113 Per una giustificazione della critica donadoniana nelle sue esigenze originali e nella sua consonanza con atteggiamenti e motivi spirituali e critici della cultura italiana del primo Novecento, rimando al mio saggio Eugenio Donadoni. Nel venticinquesimo anniversario della morte, in Critici e poeti. Dal Cinquecento al Novecento cit.

114 Notevole anche il rilievo dato ai legami Foscolo-Leopardi e piú precisamente Ortis-Leopardi (anche se esagerati: «i caposaldi del pensiero filosofico del Leopardi si potrebbero trovare tutti nell’Ortis», p. 626). I rapporti Ortis-Leopardi erano già stati indagati da G. Marpillero, «Werther», «Ortis» e il Leopardi, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXXVI (1900). Si vedano anche: M. Losacco, Contributo alla storia del pessimismo leopardiano e delle sue fonti, Trani 1896; F. Sesler, Raffronti leopardiani, in «Il Saggiatore», 1902; M. Scherillo, introd. alle Poesie del Leopardi, Milano 1911; A. Patané, U. Foscolo e G. Leopardi, Catania 1917; Id., Leopardi, Foscolo e Rousseau, in «Athenaeum», 1917; G. Natali, Spiriti foscoliani nella poesia del Leopardi, in «Rivista d’Italia», 1927 (poi in Cultura e poesia in Italia nell’età napoleonica, Torino 1930); E. Guidi, Leopardi e l’«Ortis», Genova 1947.

115 La base dei piú recenti studi sulla storia interna dell’Ortis nel suo dinamico sviluppo è appunto costituita dalla fondamentale ricerca di V. Rossi (Sull’«Ortis» del Foscolo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1917 e La formazione e il valore estetico dell’«Ortis», nel volume delle celebrazioni pavesi del centenario della morte del Foscolo, saggi ripubblicati in Scritti di critica letteraria, III, Firenze 1930) che portò a riconoscere nell’Ortis la presenza di diverse concezioni: quella giovanile della Laura (o proto-Ortis), quella del ’98, quella del 1802 che pure tornerebbe, al di là dell’Ortis bolognese, alla situazione della «fanciulla» della Laura e utilizzerebbe brani di questa trascurati nella redazione del ’98: stimolante trama di lavoro, anche se discutibile nella precisa individuazione delle intonazioni dei vari strati e soprattutto nella ricostruzione della perduta Laura.

116 Op. cit., pp. 605-606 (ora nella 3a ed. di Firenze cit., p. 418).

117 Pubblicati postumi a Bari nel 1921.

118 Per la storia del sentimento e della poesia sepolcrale cit. Un possibile nuovo studio del modo con cui il Foscolo sentí e utilizzò originalmente la tematica sepolcrale preromantica dovrà tener conto, oltre che delle indicazioni fornite dalle ricerche del periodo storico già ricordate (e di quelle di é.R. Vincent, The commemoration of the dead, Cambridge 1936), della notevole sistemazione della tematica sepolcrale europea nei due filoni inglese e francese, offerta dal saggio di R. Michéa, Le plaisir des tombeaux au XVIIIe siècle, in «Revue de Littérature Comparée», 1938.

119 Riprese ed esagerò la tesi del Manacorda T.L. Rizzo (La poesia sepolcrale in Italia, Napoli 1927), che volle ritrovare fonti solo greco-latine e italiane ai motivi sepolcrali foscoliani.

120 V. soprattutto E. Zona, L’unità organica del pensiero foscoliano, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXIII (1914), e (assai piú cauto) E. Flori, Il pensiero filosofico foscoliano, in «Rivista d’Italia», 1912 (poi in Il teatro di U. Foscolo, Bologna 1925). G. Zonta nel suo interessante studio, L’anima dell’Ottocento, Torino 1921 (v. anche la sua introd. al commento delle Poesie di U. Foscolo, Torino 1925), fa addirittura del Foscolo il primo assertore in Italia della «creazione pura dell’Io».

121 B. Croce, Foscolo, in «Critica», 1922, poi in Poesia e non poesia, Bari 1923.

122 Id., Leopardi, in Poesia e non poesia cit., p. 102.

123 Si veda ora sul saggio del Croce e sulle ragioni personali e storiche della sua simpatia foscoliana in polemica con la prospettiva pessimistica leopardiana, lo scritto di P. Fasano, Croce e Foscolo, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1967 e poi in Stratigrafie foscoliane, Roma 1974.

124 Si veda, in proposito all’attenzione crociana a quest’aspetto del Foscolo, l’articolo sulla soppressione del libro su Parga, Il libro inglese del Foscolo, in Varietà di storia letteraria e civile, II, Bari 1949, pp. 200 e ss.

125 Nella «Critica», 1940 (e poi in Poesia antica e moderna, Bari 1942).

126 La poesia di U. Foscolo, Bari 1920 (nuova ed. molto ampliata e trasformata, Bari 1932, 19473).

127 «Giornale storico della letteratura italiana», LXX (1922). V. anche l’aspra rec. di E. Carrara («Nuova Rivista Storica», VI, 1911). Da questi due attacchi il Citanna fu difeso dal Croce («Critica», 1923), il quale, in una violenta polemica contro gli epigoni del metodo storico, lodò significativamente il Citanna proprio per essersi volto a considerare la poesia foscoliana senza curarsi delle idee «filosofiche o sociali» dello scrittore. Ché il libro del Citanna rappresenta appunto il momento piú caratteristico di una interpretazione della poesia in sé e per sé e quindi, nella reazione ad interpretazioni psicologiche e sociologiche, pericolosamente isolata dalla storia e dalla vita concreta dell’autore oltreché separata dalle altre espressioni artistiche del prosatore (sicché un capitolo sull’Ortis venne aggiunto solo nella 2a ed. e anche in quella rimase piuttosto frammentario ed estraneo all’interesse vero dello studio).

128 Lo stesso «errore» del Citanna (quale apparve al Fubini e, prima, al Russo – Critica estetica e schematismo astratto, in «La Nostra Scuola», 1920, poi in Problemi di metodo critico, Bari 1929 – che rilevò acutamente lo schematismo dell’interpretazione del Citanna) fu certamente efficace nello stimolare, nell’ambito della critica idealistica, un nuovo esame dei Sepolcri diretto a giustificare l’accento unitario al di là della indiscriminata accettazione romantica e a valutare la diversa intensità poetica delle varie parti. Cosí come l’esame analitico dei sonetti e delle odi, malgrado i suoi risultati di diversa validità, contribuí a stimolare nella critica novecentesca l’importante lavoro di commento estetico documentato dai numerosi commenti dell’ultimo trentennio.

129 Impressione ribadita anche nel rapido accenno alle Grazie nel successivo volume del Citanna, Il romanticismo e la poesia italiana, Bari 1935, p. 132.

130 Già lo stesso D’Annunzio aveva chiaramente indicato la sua preferenza per le Grazie rispetto alle altre opere poetiche del Foscolo. Ma solo nel periodo fra le due guerre si precisò il piú profondo interesse della letteratura militante per il poema incompiuto e per il Foscolo didimeo (che fu anche stimolato dalla «scoperta» rondistica della prosa poetica leopardiana) e, mentre nel primo Novecento si può ricordare, in zona vociana, soprattutto la dubbia ammirazione del Soffici per la poesia foscoliana (sfociata poi infelicemente nelle piú stanche ed accademiche esercitazioni classicistiche del rivoluzionario convertito all’«ordine» e alla tradizione), si deve anche dire che lo stesso amore per il Foscolo nel periodo rondistico ed ermetico non raggiunge però la pienezza del culto e del «mito» leopardiano e la poesia foscoliana non venne cosí profondamente acquisita nella scelta pragmatica del gusto poetico contemporaneo come avvenne invece per quella del Leopardi e del Petrarca.

131 U. Foscolo, Torino 1928, Firenze 19623, ora in U. Foscolo. Saggi, studi, note, Firenze 1978.

132 Intenti divulgativi e intonazione di compilazione variamente originale limitano la considerazione su piano critico di monografie uscite fra il libro del Donadoni e la piú recente fase di studi foscoliani: come quelle di A. Albertazzi (U. Foscolo. Vita, Messina 1915; Opere, Messina 1918), di A. Donati (U. Foscolo, Roma 1927), di G. Natali (La vita e le opere di U. Foscolo, Livorno 1928, nuova ed. aggiornata, U. Foscolo, Firenze 1953), di G. Dolci (U. Foscolo, Milano 1935). Del tutto irrilevanti quelle di V. Piccoli, U. Foscolo, Milano 1938; di O. Costanzi, U. Foscolo, Roma 1940; di A. De Donno, U. Foscolo, Milano 1939. Assai notevole e personale, pur nei limiti della sua destinazione divulgativa, quella recente di D. Bulferetti (U. Foscolo, Torino 1952).

133 Op. cit., p. 273 (ora in U. Foscolo, 1978 cit., p. 180). Anche il Momigliano, che difendeva l’unità dei Sepolcri rilevando solo «qualche esagerazione di colorito» nell’atmosfera unitaria da lui cosí finemente evocata (La poesia dei «Sepolcri», in «Rivista d’Italia», 1918, poi in Introduzione ai poeti, Roma 1946, e già rifuso nelle pagine della Storia della letteratura italiana, Messina 1936), insisteva proprio in quell’anno sulla superiorità dell’ultima parte del carme limitando il carattere patriottico della sua ispirazione. L’analisi dei Sepolcri del Momigliano è una delle letture critiche piú suggestive del carme ed è certo il contributo piú valido di quel critico all’esame della poesia foscoliana: poesia che egli nella sua Storia della letteratura (Messina 1936) presentò soprattutto nella sua intonazione di religiosità romantica, meno valutandone – malgrado i successivi accenni alle Grazie (ricordati piú avanti) – altri aspetti ed elementi essenziali.

134 Op. cit., p. 290 (ora in U. Foscolo cit., p. 230).

135 Si vedano ora le nuove pagine dedicate dal Fubini alle Grazie nelle dispense universitarie Lettura della poesia foscoliana, Milano 1949.

136 Sterne in Italia, Roma 1920. Solo G.P. Lucini, all’inizio del secolo, aveva prestato particolare attenzione (ma piú in sede di poetica personale che di considerazione critica, e nelle forme bizzarre e paradossali caratteristiche del suo ingegno) al Foscolo didimeo (v. le pagine sull’«eterno poetico didimeo», in Ragion poetica e programma del verso libero, Milano 1908).

137 Il capitolo ultimo sul critico riprende e svolge le idee della acuta introduzione del Fubini ai Saggi letterari di U. Foscolo (Torino 1926, ripubblicati in Romanticismo italiano, Bari 1953), in cui finemente erano stati studiati il mito del poeta primitivo, la radice unica della poesia, della retorica, dell’estetica e critica del Foscolo, il culto della genialità e la sua attenzione al lavoro strenuo dell’arte e dello stile.

138 Studi su U. Foscolo, editi nel centenario della morte del poeta a cura dell’Università di Pavia, Torino 1927. In questo importante volume (che può mostrare anche di fronte al volume U. Foscolo nel centenario del suo insegnamento all’Università di Pavia, Pavia 1909, di carattere strettamente documentario ed erudito, il rinnovamento portato negli studi foscoliani dalla nuova cultura idealistica), oltre agli studi sul Foscolo politico (A. Solmi, U. Foscolo e l’unità d’Italia; C. Morandi, L’attività politica del Foscolo nel triennio repubblicano; D. Spadoni, Il Foscolo cospiratore nel 1813-1814), sono raccolti notevoli studi sul pensiero estetico e sulla formazione e cultura letteraria del Foscolo: lo studio di Rossi, La formazione e il valore estetico dell’«Ortis», già ricordato per la sua particolare importanza; D. Bianchi, Studi del Foscolo sul Petrarca; L.A. Stella, U. Foscolo e la poesia ellenica; F. Losavio, U. Foscolo traduttore di Omero; G. Patroni, La poesia e la figura di Omero nei «Sepolcri»; I. Sanesi, U. Foscolo traduttore di Anacreonte; A. Corbellini, Il Foscolo e Pindaro; M. Galdi, L’intimo significato del commento foscoliano alla traduzione della «Chioma di Berenice»; e soprattutto l’importante contributo di F. Ghisalberti, Il Foscolo e l’abate Conti, cosí utile a chiarire i rapporti del Foscolo con i piú validi motivi dell’estetica settecentesca e i caratteri del suo neoclassicismo (sulla importanza del Gravina nel classicismo ellenistico del Foscolo insisteva G. Toffanin, Il neoumanesimo del Foscolo, in «Cultura», 1927). Negli anni intorno al centenario debbono essere ricordati (a parte i discorsi commemorativi di scarso valore) alcuni saggi generali sulla personalità foscoliana, come quello di A. Foà, U. Foscolo, Torino 1927 (interpretazione del Foscolo in termini eccessivamente romantici di «misteriosa tragicità», non diversamente da quella di A. Farinelli in un saggio celebrativo pubblicato nei «Preussische Jahrbücher», 1928, poi in Neue Reden und Aufsätze, Pisa 1937), o quelli di B. Tecchi, Il dramma di U. Foscolo, Firenze 1927; di G. Dolci, Ritratto di U. Foscolo, Roma 1929; e alcuni contributi particolari sulla prima attività poetica foscoliana (M. Scherillo, I primordi del Foscolo e gli ammonimenti del Cesarotti, in «Nuova Antologia», 1927; N. Vaccalluzzo, La preparazione poetica di U. Foscolo, Catania 1928), sulle idee estetiche e su aspetti della poetica del Foscolo (L. Azzolina, L’estetica del Foscolo e le «Grazie», Cagliari 1927; F. Biondolillo, U. Foscolo e l’immortalità della poesia, in «Nuova Antologia», 1927; A. Foratti, Le «Grazie» di U. Foscolo e l’arte, in «Atti e Memorie dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Padova», 1928; e, piú tardi, L. Volpicelli, Le idee estetiche di U. Foscolo, Adria 1936).

139 U. Dorini, Il pensiero politico del Machiavelli e il Foscolo, in U. Foscolo e Firenze, Firenze 1928 (volume edito a cura della Società nazionale per la storia del Risorgimento, Comitato toscano, e comprendente vari scritti relativi ai rapporti fra il Foscolo e Firenze: notevoli, fra gli altri, G. Mazzoni, U. Foscolo e S. Croce; A. Panella, I due amici fiorentini: Niccolini e Capponi; G. Lesca, La donna gentile; A. Linacher, I manoscritti del Foscolo e la prima edizione delle Opere; F. Maggini, U. Foscolo nella tradizione toscana cit.).

140 L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 1935.

141 U. Foscolo, Opere, Ed. Naz., VIII, Prose politiche e letterarie, dal 1811 al 1816, a cura di L. Fassò, Firenze 1933. Nelle note della introduzione si può ricostruire una completa bibliografia sul Foscolo politico e il suo comportamento nella caduta del regno italico. (Si vedano anche le pagine intorno al Foscolo nel volume di P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes, Paris 1910, e in quello di J. Luchaire, Essai sur l’évolution intellectuelle de l’Italie de 1815 à 1830, Paris 1906).

142 All’inizio di questa ultima fase della critica foscoliana va appunto messa in rilievo la recensione al saggio del Fubini che G. De Robertis pubblicò nel 1929 in «Pegaso» (il De Robertis aveva già compiuto un primo assaggio sulla poesia foscoliana nel commento di alcune poesie foscoliane nell’antologia Poeti lirici del secolo XVIII e XIX, Firenze 1923, e in una antologia foscoliana, Firenze 1926): recensione che chiedeva un «gusto filologico piú attento», un’indagine stilistica piú aderente, per una ricostruzione piú puntuale e sicura della linea di svolgimento della poesia foscoliana e soprattutto per la comprensione delle Grazie e i toni piú segreti della prosa didimea. E piú tardi, nel suo saggio del ’39 piú avanti citato, il De Robertis si compiaceva di avere, con quella recensione, «aiutato a comprendere la linea di sviluppo della poesia foscoliana e il tono particolarissimo delle Grazie». E certo, se le esigenze del De Robertis rappresentano soprattutto la base di un preciso filone della critica foscoliana in una direzione stilistica ben distinta e particolare (non priva del rischio di una considerazione della poesia troppo isolata dai motivi storici e culturali che la alimentano), non si deve trascurare di riconoscere e calcolare l’importanza generale di quella posizione, e lo stimolo da essa rappresentato nello svolgimento piú recente del problema critico foscoliano.

143 Ché questa (e viceversa l’eccessiva esaltazione dei Sepolcri per ragioni soprattutto patriottiche che, per reazione e per eccessiva esigenza di «purezza» lirica, aveva finito per capovolgersi in un vulgato disgusto per la loro «oratoria») aveva fortemente contribuito ad allontanare la comune attenzione dei lettori (se non dei critici) moderni dalla poesia foscoliana: donde la diversa e ritardata sua accettazione nel gusto contemporaneo di fronte a quella della poesia leopardiana e l’importanza in tal senso della nuova valutazione delle Grazie e del Foscolo didimeo, la quale a sua volta usufruiva di un nuovo confluire di esigenze critiche e delle condizioni del gusto fra dannunzianesimo piú raffinato e poetica simbolistica e musicale.

144 Il poeta delle «Grazie», in «Fiera Letteraria», 4 settembre 1927.

145 U. Foscolo: L’homme et le poète, Paris 1934.

146 V. Storia della letteratura italiana, Messina 1936, p. 448 (per il giudizio sulle Grazie di cui il critico denunciava «il senso di povertà e di freddezza», la mancanza in esse di «quasi tutta l’umanità del vero Foscolo»), e, per il Foscolo sterniano, Foscolo e Sterne, in Studi di poesia, Bari 1938. Piú tardi nel saggio Gusto neoclassico e poesia neoclassica (in «Leonardo», 1941 e poi in Cinque saggi, Firenze 1945), cosí fine ed importante nella distinzione del superiore neoclassicismo foscoliano da quello del Winckelmann, del Canova, del Monti, il critico sottolineò «la sovrana finezza» delle Grazie, l’aura di malinconia presente nella loro serenità. Ma discutibile è l’affermazione della loro tendenza al bassorilievo, e l’impressione di una poesia in cui «tutti i sentimenti sono allontanati dalla vita del cuore» non sembra trasformare radicalmente l’originario giudizio limitativo. E il miglior contributo foscoliano del Momigliano rimane la ricostruzione sensibile e ricca dei Sepolcri (nel saggio già citato e nella Storia della letteratura).

147 Le Grazie, Catania 1930. La tesi dello Sterpa venne sostanzialmente accettata dal Fubini (recensione in «Leonardo», 1931), che cosí lucidamente la sintetizza ed espone: «Le Grazie, pensa lo Sterpa, non vanno giudicate come un poema mancato, un poema che il Foscolo abbia vagheggiato e non sia riuscito a condurre a termine per l’inaridirsi della sua vena creativa o per un suo preteso abbandono ad un esercizio dilettantesco, ma come una collana di liriche, in sé compiute, in cui c’è tutta la complessiva personalità foscoliana e a cui nulla manca per essere considerata compiuta poesia; non è riuscito, è vero, il tentativo fatto dal Foscolo di racchiuderle tutte in un poema epico-didattico, ma non già per l’insufficienza poetica di quei pretesi frammenti, bensí proprio per la loro compiutezza poetica, perché la varia poesia fremente nel loro ritmo conclusivo non riusciva ad adattarsi agli schemi delle architetture e dei sommari». Eppure proprio lo Sterpa avanzava, entro la sua interpretazione inaccettabile, un gracile, ma interessante spunto (rilevabile proprio alla luce della «svolta» sulle Grazie segnata dal Russo, dal Goffis e dal mio saggio piú avanti citato del 1954): «il Foscolo è poeta che aderisce sensibilmente ai tempi: la sua corda lirica vibra al contatto con la storia» (p. 310).

148 L’edizione nazionale del Foscolo e le «Grazie», in «Pan», 1934 (poi in La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze 1938).

149 Originariamente in «Circoli», 1938, e poi sostanzialmente passato nel III volume della Storia della letteratura italiana, Milano 1940 (ma pubblicato anche a parte, Milano 1940).

150 Si veda in proposito il mio saggio Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino, in «Rassegna della letteratura italiana», 1954.

151 Linea della poesia foscoliana, in «Orto», 1939, e ripubblicato in Saggi, Firenze 1939.

152 Notevole è la stessa esigenza derobertisiana di un’adeguata attenzione alla poetica foscoliana e lo stesso rimprovero rivolto al Donadoni per non aver dedicato un capitolo del suo volume alla poetica può ben servire a indicare una delle nuove esigenze critiche affermatesi nella fase piú recente della critica. Al Commento alla Chioma di Berenice come documento principale della poetica foscoliana dette particolare e sin eccessivo rilievo A. Vallone nel suo studio Genesi e formazione dei «Sepolcri», Asti 1946, 19502. Rimando in proposito alla mia Poetica, critica e storia letteraria, Bari 1963, 19808, pp. 97-98.

153 Il De Robertis applicò poi la sua lettura delle Grazie in alcuni esami di singoli passi di quelle, sviluppando una distinzione fra la poesia piú pittorica e letteraria di alcuni passi (ad esempio l’alba sul Lario) e quella piú segreta e arcana (l’inizio dell’episodio dei Silvani, ad esempio); Per un frammento delle «Grazie», in «Primato», 1942 (poi in Studi, Firenze 1944); Idea delle «Grazie», con un esempio di lettura, in «Approdo», 1952. Ricorderemo piú avanti alcuni suoi articoli sul Foscolo sterniano e didimeo; qui citiamo ancora del De Robertis I sonetti del Foscolo, in «Primato», 1942; Le traduzioni omeriche del Foscolo, in «Primato», 1939 (poi tutti e due in Studi cit.); Candidi grandi e corrono col vento, in «Mondo» 1946, (poi in Primi studi manzoniani, Firenze 1949).

154 L’articolo citato (uscito nella «Italia che scrive» del 1941) venne rifuso nella introduzione alla edizione commentata di Poesie e prose del Foscolo, Firenze 1941, che fu ripubblicata col titolo U. Foscolo poeta critico, in Ritratti e disegni storici, I, Bari 1946: saggio importante per la individuazione di miti poetico-politici foscoliani e per la giustificazione unitaria di lirica ed eloquenza nei Sepolcri (sull’unità dei Sepolcri si veda anche lo studio di A. Russi, Per un commento dei «Sepolcri», in «Annali della Scuola Normale di Pisa», 1939). Alla formula per l’Ortis come romanzo «sepolcrale-politico» fece obbiezioni C. Muscetta nella sua introd. all’ed. dell’Ortis, Torino 1942, ristampata in Letteratura militante, Firenze 1953 (e negò la centralità del mito del sepolcro nella poesia foscoliana il Goffis negli Studi sotto citati).

155 Studi foscoliani, Firenze 1942.

156 Itinerario ritmico foscoliano, Città di Castello 1946. Nel libro del Ramat l’interpretazione della poesia foscoliana come religione romantica dell’armonia attuata nella fede dell’uomo vichianamente creatore di storia (e si veda anche dello stesso critico la generale interpretazione del romanticismo in Discorso sulla poesia romantica italiana, Lucca 1950) culmina nella piena valutazione dei Sepolcri (specie di Divina Commedia romantica), di fronte ai quali le Grazie appaiono minate da un contrasto fra il dinamismo insufficiente dello schema e la staticità dell’atteggiamento contemplativo dominante, fra le Grazie come «conforto» alla vita e le Grazie come «rifugio» dalla vita. V. anche il breve saggio sintetico di L. Malagoli, Sulla genesi della lirica foscoliana, Pisa 1950.

157 Quanto all’importante anticipo di F. Pagliai al suo testo critico delle Grazie (I versi dei Silvani nelle «Grazie» del Foscolo, in «Studi di filologia italiana», X, 1952) e alla possibile utilizzazione critica della sua precisazione di cicli elaborativi degli inni nel periodo fiorentino, rimando ancora al mio studio Vita e poesia cit. È questo uno dei punti che potrà impegnare piú fruttuosamente i foscolisti quando il testo critico permetterà di studiare concretamente l’elaborazione delle Grazie, lo sviluppo dei loro nuclei poetici, la natura della loro ispirazione, i modi e le condizioni particolari della loro genesi. Allo stesso modo l’edizione critica delle versioni omeriche, a cui stan lavorando G. Folena e G. Barbarisi, darà modo di penetrare in uno degli aspetti fondamentali dell’arte matura del Foscolo, nel suo alto esercizio di rasserenamento mercé il particolare contatto con l’armonia omerica mediata nel verso foscoliano, con evidenti inferenze sulla natura della poesia stessa delle Grazie. [Cosí scrivevo nel ’57: ora da tempo G. Barbarisi ha edito le versioni omeriche e l’edizione delle Grazie, dopo la morte di Pagliai, uscirà completata da M. Scotti].

158 Per la storia della formazione culturale e letteraria del Foscolo nel periodo preortisiano e ortisiano molto notevole è lo studio di E. Bottasso Foscolo e Rousseau, Torino 1941. Per il pensiero foscoliano importante è il saggio di E. De Negri, La logica della necessità e l’estetica della libertà nel Foscolo, in «Civiltà Moderna», 1940. Fra le ricerche biografiche piú recenti notevoli soprattutto gli studi sul periodo inglese di Vincent, Byron, Hobhouse and Foscolo cit., e An Italian in Regency England, Cambridge 1953 (trad. it. Foscolo, esule fra gli inglesi, Firenze 1954); e per il periodo zurighese utile la pubblicazione di Alcuni inediti foscoliani a Zurigo, di F. Chiappelli, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXV (1949), e lo scritto di C. Cordié, U. Foscolo sulla via dell’esilio, in «Convivium», 1950. Una rinnovata attenzione all’opera del critico è testimoniata dagli studi di L. Russo (La nuova critica dantesca del Foscolo e del Mazzini, e Il Cuoco e il Foscolo interpreti di Machiavelli, in «Belfagor», 1949), dal libro, piuttosto scolastico, di N. Festa, Foscolo critico, Firenze 1953, e dal fine saggio di A. Noferi, I tempi della critica foscoliana, Firenze 1953.

159 Didimo Chierico e altri saggi, Milano 1930.

160 Vita interiore di U. Foscolo, Bologna 1942 e 19662.

161 L. Berti, Foscolo traduttore di Sterne, Firenze 1942; C. Varese, Linguaggio sterniano e linguaggio foscoliano, Firenze 1947. Per i rapporti fra versione sterniana e Grazie si veda una mia recensione al libro del Varese (in «Spettatore Italiano», 1948) e il saggio Vita e poesia cit. Sul Foscolo didimeo e la sua prosa si vedano gli scritti di G. De Robertis, Didimo o del «pianissimo», in Primi studi manzoniani, Firenze 1949, e Foscolo, Sterne, Didimo, in «Paragone», 1951. Su Didimo si vedano anche le pagine dedicate al Foscolo nelle Fondazioni della cultura italiana moderna (Firenze 1948, I) di M. Apollonio, che dànno grande rilievo all’esperienza didimea e insistono, in maniera poco persuasiva, su di un secondo Didimo, quello dell’Ipercalisse. Per anticipi di tono didimeo nel carteggio Arese (e per i rapporti di questo con Ortis e Sesto tomo) cfr. L. Caretti, Sulle lettere del Foscolo all’Arese, in «Belfagor», 1949 (e poi in Studi e ricerche sulla letteratura italiana, Firenze 1951), con una discussione sull’ordinamento del carteggio con P. Carli, che rispose in «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», 1950.

162 M. Fubini, Foscolo minore, Roma 1949 (ora in U. Foscolo cit.). Per la questione del Sesto tomo dell’io si vedano le tesi diverse di S. Aglianò (Cronologia e significato del «Sesto tomo dell’io», in «Annali della Scuola Normale di Pisa», 1941); E. Bottasso (Ancora la datazione del «Sesto tomo dell’io», in «Giornale storico della letteratura italiana», 1941); C.F. Goffis (Studi foscoliani cit.; Reintegrazione di un testo foscoliano, in «Annali della Scuola Normale di Pisa», 1947; Nascita e vita del Diogene foscoliano, in «Convivium», 1951; e soprattutto Il «Sesto tomo dell’io» e la formazione letteraria del Foscolo, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», 1953-1954).

163 M. Fubini, Lettura dell’«Ortis», Milano 1947.

164 Il primo «Ortis», in «Approdo», 1953; Sul secondo «Ortis», parte prima; Il lavoro dell’«Ortis», in «Approdo», 1953, tutti notevoli nel seguire l’affinamento della prosa foscoliana anche se in vari punti discutibili specie per la valutazione forse eccessiva del primo Ortis. Da ricordare anche il saggio, assai ricco di osservazioni piú che conclusivo, di P. Bigongiari, Alle origini dello stile foscoliano: Fra strato e strato dell’«Ortis», in «Paragone», 1951 (ora in Il senso della lirica italiana, Firenze 1952). Lo studio dell’Ortis ha naturalmente implicato una nuova attenzione alla prima produzione foscoliana preortisiana: su questa verte il saggio di A. Chiari, Verso l’«Ortis», in «Aevum», 1941 (poi in Indagini e letture, I, Città di Castello 1946), mentre C. Grabher vi ha ricercato lontani preannunci delle Grazie, in Interpretazioni foscoliane, Firenze 1947, che studiano anche il passaggio dal primo al secondo Ortis soprattutto nei cambiamenti subiti dai personaggi.

165 Fra questi ricordo il mio saggio Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis», in «Rassegna della letteratura italiana», 3, 1959, poi in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze 1963.

166 Per i rapporti della poetica foscoliana con la poetica neoclassica rinvio al mio saggio La poetica neoclassica in Italia, in «Belfagor», 1951 (e agli altri miei studi sul neoclassicismo epassati poi nel cit. Classicismo e neoclassicismo).

167 Anche il nuovo approfondito interesse storico (sia nello sviluppo di uno storicismo piú concreto e totale, sia nelle particolari tendenze storiografiche di origine marxistica) potrà recare utili contributi e generali stimoli ad una storicizzazione della personalità, della cultura della poesia foscoliana in relazione alla posizione storica e politica del poeta, che riprenda modernamente e cautamente alcune indicazioni implicite nella stessa interpretazione autocritica foscoliana e nel saggio desanctisiano. In tal senso si possono ricordare già gli studi del Russo, Foscolo politico (in «Belfagor», 1946, 1947, 1948), il saggio del Fubini sulla Lettera del 17 marzo e l’edizione zurighese dell’«Ortis» (in «Bollettino di Lettere Moderne dell’Università Bocconi», 1947, e poi in Foscolo minore cit.) e alcuni accenni di N. Sapegno (nel capitolo dedicato al Foscolo, nel Compendio di storia della letteratura italiana, III, Firenze 1947) circa lo sforzo foscoliano di «colmare l’abisso che era nell’opera alfieriana, tra mondo reale e mondo ideale, di evadere dal suo impossibile isolamento verso un’accettazione sempre piú piena e convinta della realtà in tutti i suoi aspetti» (op. cit., p. 49). Circa la mia partecipazione allo sviluppo del problema critico foscoliano, oltre al saggio citato sull’Ortis, ricordo il mio saggio Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13 (del 1954 e poi in Carducci e altri saggi, Torino 1960, 19804) teso a chiarire soprattutto la genesi delle Grazie nel preciso periodo che vede l’inizio del lavoro del poema incompiuto, l’irruzione impetuosa della Ricciarda, la rinnovata e perfezionata traduzione «didimea» del Viaggio sterniano, e la ripresa piú profonda del poema maturatosi in una ricerca di armonia agevolata dalle condizioni propizie della «civiltà di Bellosguardo» e sollecitata a contrasto dalla sofferta recezione delle vicende tragiche della campagna di Russia e delle sue conseguenze.

168 Mantengo questa conclusione del mio saggio del ’57, malgrado le flessioni successivamente rilevate della fortuna foscoliana e la prospettiva da me proposta nel 1978 perché tale mi appariva la situazione appunto intorno al ’57 e perché in quella conclusione «provvisoria» l’ipotesi di mutamento era pur ben chiarita specie pensando alla envergure della mia nozione di poetica (non solo letteraria). Ritengo perciò assai strana l’insistenza di una recente storica della critica foscoliana (M.T. Lanza, Foscolo, Palermo 1977) su questa mia conclusione come chiave di tutta la mia immagine della critica foscoliana e del Foscolo (e nell’antologia di quel volume si riportano di me proprio le pagine piú da lei incriminate per carenza sociologica e non quelle piú considerate nella «nuova critica foscoliana»), mentre poi nella sua storia i nodi del percorso della critica, specie ottocentesca, concordano sostanzialmente con il mio saggio, dichiarato del resto «fondamentale», ma insieme monotonamente contestato. Tutta l’ultima e piú delicata parte attuale della critica foscoliana, nel volume della Lanza è poi tutta volta ad esaltare quel tripudio metodologico (approcci psicanalitici, strutturalisti ecc.) che corrisponde bene alla prospettiva di una interpretazione dell’«intellettuale scrittore» che pur l’autrice caldeggia e che avrebbe potuto trovare un appoggio anche nel mio saggio del ’78.

169 3 voll., Firenze 1961-1967.

170 Firenze 1961.

171 Firenze 1955.

172 2 voll., Firenze 1964.

173 Firenze 1972.

174 Scritti vari di critica storica e letteraria, a cura di U. Limentani e J.M.A. Lindon, Firenze 1978; Studi su Dante, I, a cura di G. Da Pozzo, Firenze 1979; Studi su Dante, II, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1981.

175 Tutti gli scritti foscoliani del Fubini, a cominciare dalla monografia del ’28 fino a saggi e note piú recenti e condotti avanti fino alla morte, sono stati raccolti in un volume U. Foscolo. Saggi, studi, note, Firenze 1978, postumo.

176 Dal volume Nuovi studi foscoliani, Firenze 1958, a recentissimi saggi in rivista in particolare sull’Ortis e sul cosiddetto «proto-Ortis» (in discussione con gli studi di P. Fasano e M. Martelli piú avanti citati) specie in Le tre Laure del Foscolo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1979.

177 Del 1961 (in «La Rassegna della letteratura italiana» di quell’anno) e poi in Carducci e altri saggi, Torino 19804.

178 Gli articoli di Comisso sono apparsi nel «Mondo», nel 1959.

179 Dico provinciale, sia perché temporalmente incapace di uscire dalla «provincia» del piú effimero presente, sia perché scioccamente e sprovvedutamente esterofilo in reazione speculare al provincialismo nazionalistico del periodo fascista. Basti sintomaticamente ricordare che, in un pezzo giornalistico dedicato enfaticamente alla rappresentazione teatrale del libello di Gadda, si diceva pressappoco cosí: a livello europeo non solo Foscolo, ma persino Leopardi era un «piccolo scrittore»! Cito a memoria (ma con sicurezza del fatto e del senso) da un giornale fra ’60 e ’70 senza ricordarmi precisamente autore, giornale e data: la memoria ricorda le sciocchezze, non i loro frivoli autori e gli organi che li accolgono incoerentemente.

180 Su «Paragone», 116, 1959, poi in volume, Milano 1967, e a lungo rappresentato teatralmente.

181 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze 1967.

182 Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, I, Torino 1975, p. 569.

183 Op. cit., II, p. 938.

184 Cfr. lo studio di L. Sozzi, piú avanti citato, e in generale (per l’uso giacobino francese dei cimiteri) il volume di P. Ariès, L’homme devant la mort, Paris 1977.

185 Disperati e passivi, in «Corriere della Sera», 22 luglio 1973.

186 A questo proposito rimando a quanto scrivo, circa simili frasi ortisiane e circa l’errore di appiattire l’autore sul personaggio, nel saggio del ’74 sulle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

187 Si trattava di un’intervista a Moravia e a L. Piccioni.

188 In «Critica Marxista», 1973.

189 S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1965, 19692.

190 Op. cit., pp. 14-15.

191 Debole risulta, ad esempio, un libro di G. Paparelli, Storia della «lirica» foscoliana, Napoli 1971. Poco conclusivo è il volume complicato di A. Tripet, L’inquiétude et la forme, essai sur U. Foscolo, Lausanne 1973, mentre ampio e volenteroso, ma confuso fra storicismo sociologico e psicanalisi, risulta il capitolo foscoliano di N. Mineo, nella Storia della letteratura italiana, Laterza, Bari 1977.

192 Ora sta per uscire finalmente il volume Poesie del Foscolo, nell’Edizione Nazionale, che conterrà il testo critico delle Grazie, a cura del compianto F. Pagliai e di M. Scotti (le altre poesie a cura di F. Pagliai e G. Folena). L’enorme lavoro preparatorio del Pagliai, purtroppo inconcluso, trovò pubblica realizzazione, dopo l’articolo citato del ’52, in tre saggi successivi: Prima redazione fiorentina delle «Grazie», in «Studi di Filologia Italiana», 1961; Versi a Dante nelle «Grazie», in «Studi Danteschi», 1967; Note per un progetto di edizione critica delle «Grazie» di U. Foscolo, in «Studi di Filologia Italiana», 1970.

193 L. Caretti, introduzione ad A. Manzoni, Opere, Milano 1962, pp. XVIII-XIX (ora in Manzoni. Ideologia e stile, Torino 1972).

194 L. Caretti, Foscolo, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. VII, Milano 1969, pp. 97-197.

195 G. Luti, Foscolo, Roma-Milano 1966 (poi in Le frontiere di Recanati, Firenze 1972). Al Luti si deve anche una raccolta di Scritti didimei, Milano 1974, con lucida introduzione.

196 Si veda soprattutto la violenta stroncatura, pienamente motivata, di S. Timpanaro (Un «parnassiano» atlantico, in «Belfagor», 1972).

197 F. Ferrucci, Addio al Parnaso, Milano 1971.

198 Il saggio del Ferrucci potrebbe interessare da un punto di vista metodologico, essendo forse il primo a introdurre nell’analisi dei testi foscoliani strumenti psicoanalitici. Se non che di tali strumenti il Ferrucci fa un uso davvero troppo disinvolto e sbrigativo, riconducendo ogni immagine letteraria, anche la piú consunta da una tradizione secolare, direttamente al rapporto dell’autore con il padre e la madre (ed è ovvio che poi l’ambivalenza o comunque l’ambiguità di tale rapporto può giustificare ogni apparente contraddizione nell’uso dei simboli, ma spoglia anche di capacità ermeneutica l’uso della psicanalisi). Il risultato rischia di essere un rozzo biografismo-psicologismo, non migliore di quello fine-ottocentesco per svolgersi a livello di subconscio. Né d’altra parte certe osservazioni sulle ambiguità politiche foscoliane sono passate al vaglio di una verifica non solo impressionistica e superficiale.

199 E.N. Girardi, introduzione a U. Foscolo, Opere, Milano 1966, vol. I.

200 L. Derla, Foscolo e la crisi del classicismo, in «Belfagor», 1973.

201 Anche la formazione adolescenziale a Spalato è stata oggetto di minuta e meritoria attenzione da parte di M. Zorić, Ancora sul soggiorno di U. Foscolo a Spalato e Due note su U. Foscolo e la Dalmazia, in «Studia Romanica et Anglica Zagabriensia», 1959 e 1963.

202 C. Dionisotti, Venezia e il noviziato poetico del Foscolo, in «Lettere Italiane», 1966.

203 W. Del Villano, Nascita del «liber uomo» Niccolò Ugo Foscolo, Roma 1973.

204 P. Fasano, Stratigrafie foscoliane. La sconosciuta edizione 1798 dei sonetti, in «Rassegna della letteratura italiana», 1974 (poi nel volume Stratigrafie foscoliane, Roma 1974).

205 W. Binni, L’Ode alla Pallavicini nello svolgimento del primo Foscolo, in Studi in memoria di Luigi Russo, Pisa 1974.

206 L. Derla, Interpretazione dell’«Ortis», in «Convivium», 1967.

207 A. Lepre, Per una storia degli intellettuali italiani: i giacobini e il Foscolo, in «Movimento Operaio e Socialista», 1968.

208 W. Binni, introduzione a U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano 1974. Da ricordare anche l’apprezzabile commento all’Ortis di A. Balduino, Padova 1968.

209 P. Fasano, Laura e Lauretta. Il primo romanzo di Ugo Foscolo, in «Rassegna della letteratura italiana», 1966 (ora in Stratigrafie foscoliane cit.).

210 M. Martelli, La parte del Sassoli, in «Studi di Filologia Italiana», 1970.

211 La tesi del Martelli potrebbe essere corretta da quanto suggerisce una recensione di P. Fasano («Rassegna della letteratura italiana», 1972) circa una possibile partecipazione del Foscolo alla elaborazione della «parte del Sassoli» non prima, ma dopo la partenza da Bologna.

212 R. Massano, Goethe e Foscolo, Werther e Ortis, in Problemi di lingua e letteratura italiana del ’700. Atti del IV Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Wiesbaden 1965.

213 G. Manacorda, Materialismo e masochismo. Il «Werther», Foscolo e Leopardi, Firenze 1973.

214 Notizie anche piú precise di quelle del Manacorda sulla fortuna del romanzo goethiano sono date da S.N. Cristea, The fortunes of «Werther» in Italy, in Collected essays on Italian language and literature, Manchester-New York 1971.

215 Per l’esattezza si tratta dell’ultimo capitolo di un volume che ha il suo taglio unitario nel riconoscimento delle radici politico-ideologiche (l’échec giacobino) della poetica neoclassica (M. Cerruti, Neoclassici e giacobini, Milano 1969).

216 K. Kroeber, The artifice of reality. Poetic style in Wordsworth, Foscolo, Keats and Leopardi, Madison and Milwaukee 1964.

217 A. Valentini, Campi onomasiologici e campi semantici nel sonetto foscoliano «A Zacinto», in Le ragioni espressive, Roma 1972.

218 M. Pagnini, II sonetto «A Zacinto». Saggio teorico-critico sulla polivalenza funzionale dell’opera poetica, in «Strumenti critici», 1974.

219 M. Scotti, Il «De Sepulchris Hebraeorum» di Johann Nicolai e i «Sepolcri» del Foscolo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1965 (ora in Foscolo fra erudizione e filologia, Roma 1973).

220 L. Sozzi, I «Sepolcri» e le discussioni francesi sulle tombe negli anni del Direttorio e del Consolato, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1967.

221 V. Presta, Il mito dell’armonia (Una lettura foscoliana), in «Convivium», 1968.

222 S. Orlando, Sul frammento della «vergine romita», in «Giornale storico della letteratura italiana», 1970; Id., Note sulla elaborazione formale delle «Grazie», ivi, 1971; I versi del «queto Lario», in «Misure Critiche», 1972; Id., Omero e le «Grazie», in «Lettere italiane», 1973; Id., Il mito di Atlantide nelle «Grazie» del Foscolo, in «Italianistica», 1974.

223 L’Orlando giunge a proporre una sua «edizione critica» delle Grazie (Brescia 1974; e vedi anche l’antologia Dall’«Ortis» alle «Grazie», Torino s. d. [ma 1974], e La seconda redazione dell’Inno alle Grazie di Ugo Foscolo, in «Paideia», 1973), che peraltro è ben lungi dal fornire quello strumento di lavoro che gli studiosi attendono ormai da troppi anni. Il concetto giusto della centrale «fiorentinità» delle Grazie viene infatti esasperato dall’Orlando sino a privilegiare palesemente (il che da un punto di vista filologico è assurdo) le precise stesure fatte risalire al mese di maggio 1813. D’altra parte sia i criteri di ordinamento cronologico delle varianti, sia le trascrizioni dei manoscritti appaiono tutt’altro che affidabili. Il problema dell’edizione delle Grazie appare correttamente impostato in una recensione al lavoro dell’Orlando di M. Scotti (Per una recente edizione delle «Grazie», in «Giornale storico della letteratura italiana», 1975), il quale, richiamandosi anche al Barbi, ritiene si debba scartare la ricerca di una «soluzione unitaria e sincronica», e limitarsi a identificare e documentare i vari «strati» del lavoro foscoliano, che costituiscono il vero dinamico «originale». Tale punto di vista non concerne del resto solo l’aspetto filologico, né solo Le Grazie: nell’introduzione alle sue Stratigrafie foscoliane (cit.) il Fasano osserva che l’estrema «mobilità testuale» di quasi tutta l’opera foscoliana costituisce forse il dato storicamente piú significativo per un interprete odierno, alla luce della problematica coscienza del «lavoro» letterario e della centrale contraddizione autore-opera che essa documenta alle soglie dell’Ottocento.

224 L. Piccioni, Foscolo 1812-13, in Pazienza e impazienze, Firenze 1968.

225 In realtà, mentre appaiono profondamente errate le implicazioni evasive che il Piccioni scopre nel concetto foscoliano di «immaginazione» (che è al contrario, sensisticamente, una facoltà eminentemente conoscitiva, capace di «illuminare il vero»), proprio la Lettera al Fabre citata dal Piccioni sottolinea piuttosto le esigenze di connessione ordinata dei membri (il concetto di «chiaroscuro»).

226 L. Lonzi, Le transizioni nelle «Grazie» del Foscolo, in «Paragone-Letteratura», 1963.

227 V. Masiello, Il mito e la storia. Analisi delle strutture dialettiche delle «Grazie» foscoliane, in «Angelus Novus», 1969.

228 Fra gli innumerevoli interventi e approfondimenti su particolari momenti ed aspetti dell’attività foscoliana, vale la pena di segnalare la ripresa della discussione (risalente ad un antico scatto polemico del Pasquali) sul valore della «filologia» foscoliana. L’occasione è stata la pubblicazione, nell’eccellente edizione critica del Barbarisi, degli Esperimenti di traduzione dell’Iliade: dalle posizioni contrapposte di G. Fischetti (recensione all’ed. Barbarisi, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1970) e di S. Timpanaro (Ancora sul Foscolo filologo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1971) sembra comunque emergere il rilevante interesse delle posizioni foscoliane (se non dei concreti risultati tecnici, che il Timpanaro continua a negare) all’altezza dei lavori propriamente filologici del periodo inglese (i due Discorsi sul testo della Commedia e del Decameron). Per quanto riguarda approcci filologici e testuali a singole opere del Foscolo, si ricordi il volume degli Appunti per le Lettere scritte dall’Inghilterra di L. Conti Bertini, Firenze 1975, e, per quanto riguarda i commenti, il commento, soprattutto impegnativo per i Sepolcri, nel volume I delle Opere di U. Foscolo (Milano-Napoli 1974), a cura di F. Gavazzeni.

229 Fra vari articoli commemorativi di vario valore su diversi giornali va ricordata, per la sua prospettiva derisoria e scioccamente attualizzante, una parte tutta dedicata al Foscolo nell’«Espresso» del 13 febbraio 1978, in cui le stesse voci ben calibrate di studiosi seri come G. Barbarisi, G. Bezzola, U. Limentani, M. Scotti (al quale ultimo furon fatti tagli fortemente alteranti) vengono deformate da titoli ridicoli (come: Assomiglia a Balestrini, a Citati o a Asor Rosa?, o Compagno Ugo firmeresti un appello?, o L’antipatico in versi sciolti) e dalla mescolanza con pezzi piú «appositi» come quello intitolato Leggetelo solo in articulo Ortis che ha questo bel finale «spiritoso»: «Quel gran guazzabuglio di seni e natiche, di drappeggi marmorei, catene spezzate, braccia e occhi indicatori rivolti al cielo, che è il cimitero monumentale di Milano. Le poche cose buone che ci sono, in quell’Ortis non valgono il tedio delle 160 e rotte pagine». Fa eccezione, per il singolare significato serio in un contesto frivolo, l’intervento di E. Sanguineti in «Tuttolibri» del 4 febbraio 1978, in cui si avvertiva la novità del Foscolo in un pure azzardato paragone con Stendhal e i personaggi di Stendhal e si avanzava l’ipotesi – legata alla vecchia querelle Leopardi-Manzoni – di un Foscolo come «carta vincente» per il suo intervento realistico nella storia (anche se di attualizzazione assai ambigua: «l’Italia non delle rivoluzioni, ma delle controrivoluzioni»): motivi ripresi dal Sanguineti nella presentazione di un’edizione delle Lettere scritte dall’Inghilterra (Milano 1978) dove si precisa che Foscolo è «il nostro Stendhal» e l’Ortis è il nostro Rouge et noir e che le tarde Lettere dall’Inghilterra piú che «opera della mano scetticamente leggera di Didimo “son” l’opera di un Foscolo che ha attraversato l’una e l’altra delle sue maschere fondamentali e che, in sostanza, per la prima volta, tenta in pubblico l’operazione che si trova rispecchiata in tanti fogli del suo mirabile epistolario: giocare sopra “le lettere d’uomo ad uomo”, a viso scoperto, senza mediazioni. E farsi cosí personaggio...», con una ipotesi del percorso foscoliano tutt’altro che priva di stimoli critici.

230 Firenze 1979.

231 Roma 1979. Si ricordino ancora la raffinata prefazione di G. Venturi ad una riedizione di una «fonte» importante dei Sepolcri, L’arte dei giardini inglesi del Silva (Milano 1976) che arricchisce soprattutto la profilazione del carme nella sua componente figurativa o la discussione sottile di G. Petrocchi di un tormentato passo sepolcriano (in Ultima Dea, Roma 1977).

232 U. Foscolo e la crisi del giacobinismo: le due inconciliabili libertà e La libertà delle forme e la transazione delle forze nel «Commento alla Chioma di Berenice», in «La Rassegna della letteratura italiana», 1977 e 1981.

233 Il Cardini aveva già prima studiato il Commento alla Chioma di Berenice come manifesto del classicismo italiano napoleonico in Ideologie letterarie dell’epoca napoleonica, Roma 1973, e ora ha nuovamente ripreso il suo discorso nell’intervento pubblicato in «Lettere italiane», 1981,, con il titolo A proposito del Commento foscoliano alla «Chioma di Berenice».

234 Il fine della poesia e le responsabilità del letterato nel pensiero di U. Foscolo, in «Il Risorgimento», 1979. Del Bezzola si ricordi anche il saggio Foscolo prosatore, in «Cultura e Scuola», 1978.

235 Firenze 1978. Del Nicoletti va ricordata anche, per la fortuna foscoliana, l’introduzione alla Vita di U. Foscolo di G. Pecchio, Milano 1974 (poi ripubblicata nel citato volume).

236 Torino 1978.

237 Roma 1979.

238 In «La Rassegna della letteratura italiana», 1979.

239 L’Edippo, tragedia di Wigberto Rivalta (un inedito giovanile di U. Foscolo), in «Giornale storico della letteratura italiana», 1978.

240 Vita e testi: introduzione a una biografia foscoliana, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1980. Poco innovatrice e piú brillantemente giornalistica appare la biografia foscoliana di E. Mandruzzato, Milano 1978.

241 Si veda intanto in proposito ai convegni foscoliani la Rassegna foscoliana 1976-1979 di B. Rosada, in «Lettere italiane», 1979 (che fa seguito a quella 1965-1966, in «Lettere italiane», 1976) e si ricordino almeno gli atti del convegno bresciano, Foscolo e la cultura bresciana del primo Ottocento, Brescia 1979.

242 Si ricordi, ma non con consenso, la relazione e il volume di G.G. Amoretti, Poesia e psicanalisi, Foscolo e Leopardi, Milano 1979.

243 In «La Rassegna della letteratura italiana», 1979.